Rubrica a cura di Margaret Petrarca
Il pantone dell’appropriazione culturale
di Fatym Layachi
Foto di tawatchai07
Da: TelQuel (Marocco)
Data di pubblicazione: 19 luglio 2024
Link: https://telquel.ma/2024/07/19/le-pantone-de-lappropriation-culturelle_1884259/
Stasera sei a un aperitivo a casa di uno dei tuoi vecchi compagni di classe del liceo. Uno di quelli che neanche frequenti più. Che incroci di tanto in tanto. Spesso in serata. O ai vernissage. E a volte anche ai funerali. Finché un giorno, uno di questi vecchi compagni di classe del liceo non decide di essere proattivo e organizza un aperitivo. Tutto sommato, ti fa sempre piacere partecipare.
Si tratta di incontri piuttosto allegri. Hanno qualcosa di rassicurante: ci si rende conto di non essere del tutto cambiati dall’epoca delle sigarette fumate nel cortile della scuola, delle chitarre strimpellate per cambiare il mondo e delle bugie raccontate ai genitori.
In questi incontri si tratta di una sensazione assicurata. Ci si dice che non siamo del tutto cambiati, ma che siamo comunque un po’ migliori. Senza contare che dirselo senza nostalgia e con un bicchiere di vino bianco in mano è la promessa di una serata quantomeno piacevole. E in effetti stai passando una bella serata, quando all’improvviso senti dei frammenti di conversazione che ti disturbano.
Una delle tue vecchie amiche di serata, ora una giornalista un po’ arrabbiata – ma comunque sempre pronta a divertirsi –, si trova nel bel mezzo di una discussione. Non hai sentito l’inizio della conversazione. Hai solo colto al volo una frase della tua amica: “No, ma è scandaloso, queste foto con il caftano sono una vera e propria appropriazione culturale.” Non conosci gli annessi e i connessi, ma sentire questa espressione basta a mandarti in bestia.
E ti manda in bestia per diversi motivi. La prima, quella più lampante, è che non la capisci fino in fondo. Ma soprattutto che nessuno riesce a definirla con chiarezza. Con precisione. Nessuno, e ancor meno quelli che la utilizzano.
Dove comincia l’appropriazione culturale? E dove finisce? Come definire un “appropriatore”? A quanta percentuale di sangue autoctono non siamo più nell’appropriazione, ma stiamo esprimendo la nostra cultura? Un ragazzo di madre svedese e di padre marocchino, che porta la gellaba del nonno pur avendo gli occhi azzurri e l’incarnato pallido della madre, è un maschio bianco dominante che gode dei suoi privilegi? O solo uno che indossa vestiti familiari e di famiglia?
Esiste un pantone delle sfumature di colore della pelle per legittimare l’uso di un gioiello dall’aria vagamente etnica? Esiste una soglia precisa di “autoctonicità” che consente la fruizione del caftano? Una soglia di perbenismo che, naturalmente, ignora il fatto che si tratti probabilmente di un capo d’abbigliamento da uomo dell’Asia Minore… Perché farci scrupolo dell’accuratezza storica quando possiamo indignarci secondo il vento che tira? Esiste per caso un codice civile che legifera con precisione sulle condizioni per ottenere il diritto di indossare le babbucce?
Foto di Freepik
Decorare la propria casa con lo zellige se si è iraniani è appropriazione culturale? O la presunta islamicità di chi usa lo zellige in casa propria basta a ottenere un trattamento di favore? A meno che, nel caso specifico, non si faccia confusione. E in questo caso, tra arabo e persiano, non staremmo facendo di ogni erba lo stesso fascio di imprecisione ed essenzializzazione? A partire dal nord di quale città è inopportuno usare l’henné?
Insomma, hai una miriade di domande che ti frulla in testa e nessuno che ti dia un principio di risposta. Neanche la tua amica, che è un po’ arrabbiata e molto in posa. E anche se dovesse proporti uno stralcio di risposta, non sai se l’ascolteresti. Non perché non le daresti credito per principio, ma ritieni che quando si fa un discorso del genere gridando allo scandalo, si dovrebbe avere un minimo di coerenza. Non fosse che nell’atteggiamento. Invece la tua amica in jeans e Stan Smith made in China con un’iPhone come cordone ombelicale, ne manca terribilmente, di coerenza.
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Traduzione dal francese di Margaret Petrarca