Di Gianluca Cicinelli (da Diogene notizie)

C’è un’ironia crudele nella notizia che Tony Blair stia per tornare in Medio Oriente con un ruolo nel piano occidentale per la ricostruzione della Palestina. È come affidare la gestione di un ospedale a chi ha venduto le armi che lo hanno bombardato. Blair non porta la pace: porta con sé trent’anni di menzogne, guerre e consulenze miliardarie.

Dalle bugie di Downing Street alla rovina del Labour

Fu lui a trasformare il Partito Laburista in un marchio aziendale.
Il New Labour nacque con slogan di sinistra e dogmi thatcheriani: privatizzazioni, culto del mercato, retorica del merito, abbandono della classe operaia. Blair non ha riformato la sinistra: l’ha uccisa a sangue freddo, convincendola che bastasse ammiccare ai banchieri per essere “moderna”.

Da lì in poi, il Labour ha perso voce, radici e infine l’anima. Ha vinto tre elezioni, ma al prezzo di trasformare la sinistra in una succursale del potere economico. Il risultato si è visto: rabbia, populismo, sfiducia. E Brexit.

Le prove false e il crimine fondativo

L’eredità più tossica di Blair è la guerra all’Iraq. Fu lui a presentare al Parlamento e al mondo un dossier manipolato sulle “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. Quel documento — il famigerato “Dodgy Dossier” del 2003 — era stato riscritto dai suoi uffici, gonfiato, alterato, infarcito di dati inventati e fonti di seconda mano, molte tratte da un lavoro accademico di dieci anni prima copiato e incollato.

Blair lo usò per sostenere che Saddam potesse lanciare armi chimiche in 45 minuti: un numero falso, un titolo da tabloid, un pretesto per la guerra. La Chilcot Inquiry (2016) lo ha messo nero su bianco: la minaccia era esagerata, la guerra non necessaria e Blair aveva deciso di andare in guerra prima che esistessero prove concrete.

La menzogna costò centinaia di migliaia di vite, destabilizzò l’intero Medio Oriente, aprì la strada all’Isis e marchiò per sempre la reputazione britannica. Blair non si è mai scusato davvero: si è limitato a dire che “rifarebbe le stesse scelte”. Le stesse scelte: il cinismo elevato a metodo.

Il dopoguerra come business

Quando lasciò Downing Street nel 2007, Blair non scomparve: convertì la guerra in fattura. Accettò un incarico da JPMorgan Chase come “consulente strategico” a milioni di sterline l’anno, lavorò per Zurich Financial, fece tour di conferenze internazionali a 300.000 sterline a intervento.

Fondò il Tony Blair Institute for Global Change, macchina di influenza e lobbying travestita da centro studi, oggi attiva in decine di Paesi con fondi opachi e clienti poco trasparenti. E poi le consulenze ai regimi autoritari: Kazakistan, Kuwait, Egitto, Libia.

Il filo nero del petrolio

Nel 2007, pochi mesi prima di lasciare il governo, Blair fu protagonista della “riabilitazione” di Gheddafi: accordi che aprirono alla British Petroleum nuovi giacimenti in Libia. Fu un’operazione diplomatica ed energetica insieme, in cui la retorica della “normalizzazione” copriva il ritorno delle major britanniche nel Mediterraneo.

“2010_04_18_0009 – Tony Blair stressed (t5)” by Gwydion M. Williams is licensed under CC BY 2.0.

Negli anni successivi, Blair partecipò più volte a incontri informali con dirigenti BP e funzionari libici; le email interne del Foreign Office, rese pubbliche nel 2011, mostrano la sua intermediazione politica.

Oggi, mentre si discute della ricostruzione di Gaza, la stessa BP – insieme a Shell e a società israeliane – guarda alle riserve di gas del campo Gaza Marine, nel Mediterraneo orientale: un giacimento da oltre 30 miliardi di m³, finora bloccato dal conflitto e dal boicottaggio politico di Hamas.

Nel momento in cui si parla di “amministrazione transitoria” e di nuovi attori internazionali per la gestione della Striscia, gli interessi energetici tornano centrali. Ecco perché il ritorno di Blair, con la sua lunga storia di pontiere tra politica e petrolio, non è neutro ma profondamente simbolico.

Ogni volta che il Medio Oriente diventa un mercato da riaprire, quando c’è qualcosa da vendere, ecco che qualcuno tira fuori Tony Blair.

Il mercante di pace

Nel 2007 il Quartetto (ONU, UE, USA, Russia) lo nominò inviato speciale per la Palestina. Un titolo altisonante, un incarico fallimentare. Otto anni di viaggi, tavoli, “progetti di sviluppo” e nessuna svolta politica. I diplomatici lo definirono “inefficace”, i palestinesi “parziale”, gli israeliani “utile ma innocuo”.

La sua “missione di pace” fu un pretesto per costruire relazioni e contratti, non ponti. Alla fine se ne andò nel silenzio generale, senza risultati ma con una nuova rete di contatti nel Golfo e negli Stati Uniti. E ora torna, come se nulla fosse, per “coordinare” la ricostruzione di Gaza.

Perché proprio Blair?

Blair incarna la trasformazione dell’ex leader progressista in lobbista globale: morale flessibile, conti in ordine, memoria corta. È l’uomo che predica pace con la stessa voce con cui ha giustificato bombardamenti; che parla di governance mentre le multinazionali tracciano i confini del futuro energetico.

Il suo ritorno nella partita palestinese non è un segno di fiducia: è un sintomo di colonialismo morale, dove gli stessi che hanno distrutto pretendono di ricostruire — possibilmente a profitto.

Tony Blair è la personificazione del fallimento occidentale: ha mentito per entrare in guerra, ha venduto la pace a contratto e oggi si ripresenta come arbitro in un territorio dove le sue stesse logiche hanno alimentato la rovina. L’uomo delle false prove è tornato.

In Palestina non porterà equilibrio, ma il riflesso deformato di un mondo che continua a scegliere i colpevoli come garanti. E, come sempre, c’è un giacimento da gestire.

“blair gaddafi” by doodledubz collective is licensed under CC BY-NC-ND 2.0.

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