di Marco Santopadre*

Pagine esteri, 04 novembre 2021 – A lungo costretta a rintuzzare il crescente accerchiamento e la graduale militarizzazione dei territori confinanti da parte dell’Alleanza Atlantica, da qualche tempo la Federazione Russa sembra passata decisamente all’offensiva sul piano internazionale.
Lasciatasi alle spalle l’ampia presenza in diversi continenti dei tempi dell’Unione Sovietica, per lungo tempo la proiezione militare internazionale di Mosca è stata molto limitata e non scontata. Poi, la decisione di intervenire massicciamente in Siria contro le milizie di Daesh e altre formazioni jihadiste ha non solo impedito la caduta di Bashar al-Assad e l’instaurazione di un regime settario, ma anche la riconferma della base aerea russa di Khmeimim e di quella navale di Tartus, fondamentale in quanto l’unica fino a quel momento in tutto il Mediterraneo. Dall’altra parte del mondo, la Russia poteva intanto contare sulla altrettanto strategica installazione di Cam Rahn, in Vietnam.

L’intervento in Libia – per quanto più in sordina rispetto a quello siriano – a sostegno del padrone della Cirenaica, generale Khalifa Haftar, ha garantito poi un nuovo approdo alle truppe russe in un quadrante vitale.
Ma è sulla realizzazione di un avamposto militare nel Corno d’Africa che sta ora puntando la strategia di Putin. Dopo aver sondato delle alternative, Mosca si è concentrata sul Sudan. Possedere una base nel Corno d’Africa consentirebbe alla Russia di garantire la presenza costante della sua marina da guerra nel Mar Rosso, nel Golfo di Aden e quindi nell’Oceano Indiano occidentale – a presidio del Canale di Suez e delle principali rotte petrolifere – e di estendere la propria influenza su un continente sul quale Mosca punta molto.

Obiettivo Sudan

Un accordo di cooperazione militare col Sudan venne siglato nel 2017, e in seguito arrivò quello per la realizzazione di una base navale russa non lontano da Port Sudan. Secondo alcuni documenti pubblicati l’8 dicembre del 2020 da un sito governativo di Mosca, l’accordo avrebbe una durata di 25 anni e sarebbe rinnovabile per periodi di 10 anni in presenza del consenso di entrambe le parti; la base dovrebbe ospitare fino a 300 militari e a 4 unità, compresi alcuni sommergibili a propulsione nucleare. Il terreno per la base verrebbe fornito gratuitamente dal governo sudanese che in cambio riceverebbe protezione e aiuti militari da Mosca, tra cui quelli utili a realizzare una marina da guerra. In effetti Khartum ha già ricevuto una nave scuola per addestrare marinai e ufficiali. L’accordo non ha implicazioni di tipo esclusivamente militare; la Russia, infatti, ha ottenuto la possibilità di utilizzare porti e aeroporti del paese per importare ed esportare senza dover pagare dazi doganali e mira allo sfruttamento sia dei giacimenti d’oro sudanesi sia del petrolio, estratto soprattutto in Sud Sudan ma che poi deve attraversare il territorio di Khartum per raggiungere i porti del Mar Rosso.

Il patto venne siglato quando al potere a Khartum c’era ancora il dittatore Omar al-Bashir, poi deposto nell’aprile 2019 dai militari pressati da una massiccia rivolta popolare contro il regime. Mentre al-Bashir aveva esplicitamente richiesto a Mosca l’apertura della base per contrastare le minacce provenienti dagli Stati Uniti, il nuovo regime – attualmente governa una giunta civile-militare – sta faticosamente tentando di normalizzare le relazioni con Washington. Nel tentativo di uscire dall’isolamento internazionale, nell’autunno 2020 il governo sudanese avviò il riconoscimento di Israele e pagò un risarcimento di 335 milioni di dollari alle vittime degli attentati del 1998 contro le ambasciate statunitensi in Kenya e in Tanzania.

Washington rimosse Khartum dalla lista degli “sponsor internazionali del terrorismo” ma, prima delle elezioni che videro la sua sconfitta, Donald Trump decise comunque di estendere le sanzioni al Sudan, dichiarando che il paese continuava a costituire una minaccia per la sicurezza e la politica estera degli Stati Uniti.
In attesa di ciò che deciderà di fare Joe Biden, all’interno della giunta di Khartum non mancano coloro che vorrebbero ridiscutere i termini dell’accordo siglato da al-Bashir con Mosca e riconfermato dal nuovo regime nel dicembre 2020. All’inizio di giugno il capo di stato maggiore sudanese Mohammed Othman al-Hussein aveva dichiarato ai media che erano in corso dei negoziati con i funzionari russi «per meglio tutelare gli interessi di Khartum». In presenza di forti pressioni diplomatiche da parte statunitense, la giunta di transizione sudanese tenta di alzare la posta con Mosca, sfruttando la competizione tra quest’ultima e Washington.

Il 25 giugno però il primo ministro della Federazione Russa Mikhail Mishustin ha firmato il decreto di accompagnamento alla realizzazione della strategica base navale. Mosca vuole assolutamente accelerare i tempi per evitare brutte sorprese derivanti da un eventuale disgelo nelle relazioni tra Khartum e Washington che potrebbe mandare in fumo la storica opportunità di incunearsi nel Corno d’Africa, contrastando la tradizionale e declinante influenza francese e statunitense e bilanciando quella cinese.

La corsa alle basi

Il rischio è quello di essere esclusi o di arrivare comunque in ritardo in una regione tra le più ambite e già particolarmente affollata. Mentre i turchi hanno ottenuto proprio dal governo sudanese uno scalo navale nel porto di Suakin e aumentano gradualmente la propria presenza in Somalia, gli Emirati Arabi Uniti hanno aperto basi in Eritrea e in Somaliland. La piccola ma strategica Gibuti, poi, è ormai un vero e proprio hub militare internazionale, con avamposti affidati alla Cina, agli Usa, alla Francia, all’Italia, al Belgio, alla Germania, al Giappone e all’Arabia Saudita.

Mentre cercano di strappare a Khartum il sì definitivo su Port Sudan, i russi continuano le trattative per la realizzazione a Berbera, in Somaliland, di un’altra base navale mentre progrediscono i negoziati per la creazione di un centro logistico sulla costa dell’Eritrea. Nel frattempo Mosca, per quanto indirettamente – attraverso i mercenari della Compagnia Militare Privata “Wagner”, i cui legami con il governo e l’esercito russo sono comunque stretti – ha messo già un piede sia nella Repubblica Centrafricana sia in Mozambico, e i suoi funzionari trattano per ottenere altri punti di appoggio in Egitto e in Madagascar.

Il risveglio dell’interesse russo per l’Africa

Dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica, la Federazione Russa governata da Boris Eltsin a malapena riuscì a mantenere una relativa presenza militare in alcune delle ex repubbliche divenute indipendenti, ritirandosi precipitosamente dal “Continente Nero”. Poi però l’avvento di Vladimir Putin, dal 2000, ha invertito gradualmente la tendenza e l’Africa è tornata prepotentemente al centro delle strategie e degli interessi russi. Un ruolo centrale l’ha giocato Sergej Lavrov, diplomatico e poi Ministro degli Esteri di Mosca, supportato dai ricercatori dell’Istituto di Studi Africani dell’Accademia delle Scienze e a capo di una rete che può contare su un gran numero di uomini politici, funzionari e imprenditori di molti paesi africani formatisi gratuitamente in alcune Università ai tempi dell’Urss. Consci che avrebbe rappresentato un oculato investimento, i dirigenti russi hanno ripristinato un gran numero di borse di studio che attirano ogni anno migliaia di studenti africani provenienti soprattutto dalle ex colonie portoghesi e britanniche, nella speranza che in futuro possano agevolare la penetrazione di Mosca.

Il secondo mandato presidenziale di Putin ha accelerato la strategia diretta a un ritorno russo in Africa. Mentre il presidente moltiplicava le visite ufficiali e nominava un inviato speciale per il continente – Mikhail Marguelov – il Cremlino basava il proprio intervento su due assi: l’annullamento ai partner africani del debito ereditato dall’epoca sovietica e l’incremento delle forniture di armi in cambio di contratti per lo sfruttamento delle risorse minerarie locali. Mentre il governo russo forniva generosi piani di addestramento e armamento degli eserciti di diversi governi africani, i grandi gruppi economici pubblici e privati si occupavano del resto, accaparrandosi contratti in campo minerario, energetico e petrolifero.
Al contempo, il messaggio rivolto alle controparti africane ha sempre insistito sul rispetto della sovranità e degli interessi dei diversi paesi, sulla non ingerenza e sul contrasto allo strapotere delle potenze post-coloniali.

L’intervento in Siria e la Conferenza di Soči

Il carattere rapido, massiccio e risolutivo dell’intervento militare russo in Siria e in Libia ha reso poi la penetrazione russa, a partire dalla metà dello scorso decennio, ancora più credibile e appetibile per molti governi africani interessati a controbilanciare le ingerenze degli Usa e delle potenze europee, ma anche della Cina.
Negli ultimi anni Mosca ha notevolmente moltiplicato i contratti per la fornitura di armi, munizioni, equipaggiamenti, missili, caccia, elicotteri, carri armati e sistemi di difesa antiaerea, che interessano almeno 40 paesi africani.

Contemporaneamente è cresciuto l’intervento dei mercenari della Wagner e di consiglieri militari russi in diversi paesi, impiegati nella repressione di movimenti e milizie d’opposizione o dei jihadisti di Boko Haram e di altre sigle. A lungo alcune diplomazie e soprattutto i media occidentali hanno ignorato o quantomeno sottovalutato l’intenso lavorio russo in Africa, assai più preoccupati per il boom dell’influenza cinese.
Nell’agosto del 2020, però, il quotidiano tedesco Bild ha suonato l’allarme; citando un rapporto riservato del Ministero degli Esteri di Berlino, intitolato “Le nuove ambizioni africane della Russia”, il giornale rivelò che Mosca aveva firmato dal 2015 accordi di cooperazione militare con ben 21 paesi africani (mentre in precedenza ne vantava solo 4) e intratteneva negoziati formali con 6 stati del “Continente Nero” per l’apertura di proprie basi militari. Il punto di svolta era stato il già citato intervento di Mosca in Siria (e in Libia).
I lusinghieri risultati della diplomazia russa erano comunque già emersi grazie alla convocazione a Soči della prima Conferenza Russia-Africa attraverso la quale il Cremlino ha voluto mettere a frutto – ed in scena – i suoi sforzi, sfruttando il modello delle periodiche conferenze paese-continente già ampiamente utilizzato da altri attori internazionali, in particolare Cina e UE.

Il 23 e 24 ottobre 2019 nella città russa sul Mar Nero si riunirono 3000 delegati provenienti da 54 paesi africani, compresi 43 capi di stato. Presieduto da Vladimir Putin e dal presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, il vertice si concluse con la firma di 500 accordi e contratti per un valore totale di 11,3 miliardi di euro.
In attesa della celebrazione di un secondo Summit già previsto nel 2022 in una sede ancora da definire, Putin ha nominato Oleg Ozerov presidente del Foro del Partenariato Russia-Africa, incaricato di dinamizzare le relazioni bilaterali, in coordinamento con i vertici dell’Unione Africana.

La posta in gioco

Non è un segreto che la Russia consideri da tempo l’Africa una priorità assoluta della propria politica estera e commerciale. Il continente africano ha ormai 1,4 miliardi di abitanti che, secondo le previsioni dell’ONU, dovrebbero diventare 2,4 intorno al 2050, rappresentando il 25% della popolazione mondiale. Nonostante la permanenza di enormi sacche di povertà estrema, nella maggior parte dei paesi africani crescono velocemente sia i consumi sia il fabbisogno di infrastrutture. Negli ultimi anni, inoltre, soprattutto l’Africa sub-sahariana ha iniziato a costituire uno dei principali fornitori mondiali di materie prime, in primis petrolio, uranio e coltan.
Un’opportunità formidabile per le grandi e medie imprese russe attive in settori che si stanno sviluppando rapidamente come quelli dell’energia, dell’agricoltura, dello sfruttamento minerario, dei trasporti, della formazione del personale.

Mosca continua a incentrare i suoi rapporti con il continente su alcuni pilastri: la vendita di armi a prezzi competitivi, la cooperazione in materia di sicurezza, lo sfruttamento delle risorse naturali ed energetiche, l’esperienza nella realizzazione di infrastrutture e la ricerca di mercati per i propri prodotti.

La Russia vanta un solido primato nella vendita di armi ai paesi africani – in particolare all’Algeria, al Sudan, all’Egitto e all’Angola – con il 37,6% del totale; seguono a distanza gli USA, con il 16, la Francia con il 14 e la Cina con il 9.

Sul fronte commerciale i partner più importanti di Mosca sono l’Egitto, il Marocco, l’Algeria, la Tunisia, il Sud Africa, il Sudan e la Nigeria. Ma anche se il volume degli scambi con l’Africa è in rapida crescita, resta ancora lontano dai livelli raggiunti dai suoi concorrenti. L’interscambio commerciale è passato da 3,4 miliardi di dollari nel 2005 a circa 20 nel 2018, ma si tratta ancora di poca cosa rispetto ai 300 miliardi di scambi tra UE e Africa, dei 204 con la Cina, dei 57 con gli Stati Uniti o dell’India. Di fatto le relazioni commerciali tra Russia e Africa rappresentano solo il 3% del totale, superati anche dagli Emirati Arabi Uniti.

Ma le imprese russe si stanno aggiudicando commesse sempre più consistenti, come la concessione per la produzione di gas offshore in Mozambico. La compagnia nucleare statale Rosatom si è aggiudicata l’appalto per la costruzione della centrale atomica di al-Dabaa in Egitto e potrebbe vincerne altri in Nigeria. Contemporaneamente la Lukoil e la RT Global Resources vincono gare per lo sfruttamento e per la raffinazione del petrolio in diversi paesi. Altrettanto si può dire per la produttrice di alluminio Rusal, per il gigante russo del gas Gazprom, per Alrosa – leader mondiale nell’estrazione di diamanti – o per le imprese che costruiscono ferrovie. I contratti e gli appalti arrivano spesso in seguito all’arrivo nei diversi paesi dei mercenari o dei consiglieri militari russi in soccorso di governi messi in discussione da conflitti interni o dall’insorgenza jihadista.

Mosca insidia Parigi

La Federazione si pone come elemento di stabilizzazione e di mediazione all’interno di conflitti regionali – come quello tra Sudan/Egitto contro Etiopia/Eritrea – offrendo inoltre il proprio seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU per supportare alcune iniziative dei paesi africani dirette contro i propri competitori. D’altra parte il sostegno alle Nazioni Unite di alcuni dei 54 paesi africani rappresentati (il 28% del totale) costituisce un elemento di particolare interesse per la strategia geopolitica di Mosca, che negli ultimi anni ha cominciato a rappresentare un’alternativa, per alcuni governi locali, ad una penetrazione cinese giudicata troppo invadente e foriera di un indebitamento che pesa come un macigno sulle prospettive di sviluppo. Ma è soprattutto la presenza francese in Africa ad aver sofferto l’aumento del peso russo. Per perorare la sua causa, Mosca ha ampiamente sfruttato il sentimento antifrancese presente in particolare dell’Africa centrale e occidentale, come la Repubblica Centrafricana e il Mali, ma anche in Madagascar, riuscendo ad approfittare di alcuni passi falsi della politica estera di Parigi. In alcune aree la Russia si è ormai affermata come il principale competitore della Francia, anche più della Cina o degli Stati Uniti. Il segnale rappresentato dai manifestanti che a Bamako sventolavano bandiere russe contestando la presenza delle truppe francesi e ringraziando il sostegno di Mosca è inequivocabile.

FONTI

https://www.mei.edu/publications/sudan-key-area-us-russia-competition

https://www.limesonline.com/rubrica/russia-base-navale-sudan?

* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nordafrica. Scrive tra le altre cose di Spagna e Catalogna.

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