“Ho lasciato il fucile in montagna. Diario del cammino di pace di una guerrigliera curda” (di Yüksel Genç, Edizioni Punto Rosso), è il diario tenuto nel 1999 della guerrigliera curda Yüksel Genç, nome di battaglia Jiyan, ‘vita’ in italiano, ed è il racconto quasi mitico (o almeno è l’effetto che fa a noi che lo leggiamo) di una impresa straordinaria e, a guardarla con occhi senza amore, fallimentare. Otto guerriglieri di cui tre donne, una è la nostra narratrice, lasciano l’accampamento nascosto tra i meandri della catena dei monti Zagros al confine tra la Turchia, la Siria e l’Iraq (dove hanno imparato a vivere la libertà, ad amare le montagne che hanno fatto da cornice alla rinascita delle coscienze che per loro è stata la resistenza armata, la natura aspra, la purezza di spazi incontaminati), e marciano per giorni per impervi sentieri, tenendo a bada la nostalgia. Sanno che, forse per sempre, non rivedranno le proprie compagne, che non potranno condividere con loro amore, sacrifici e morte ma soprattutto il cielo stellato, il verde dei prati, il rosso ocra delle rocce e la libertà del vento nei capelli. Camminano per giorni, senza sosta, camminano per sentieri impervi e innevati, bagnati dalla pioggia e riarsi dal sole, la vita appesa a un esile filo della sorte e dentro di sé, la fede sconfinata nella visione civile del loro leader Abdullah Öcalan, allora da poco imprigionato nella fortezza dell’isola di Imrali. Camminano verso il nemico, decisi a non usare le armi anche se attaccati perché la loro missione è consegnarsi in nome di una pace possibile sapendo che all’arrivo avrebbero dovuto affrontare interrogatori, tortura e carcere. Ma “il popolo vuole la pace”, e allora nessun sacrificio a troppo grande. Un racconto struggente letto oggi, nel 2023, che ormai sappiamo come “la bella speranza” sia stata sfregiata dai maneggi dell’astuto dittatore Erdogan, eletto nel 2002 e da allora in sella al potere. Un potere personale usato spregiudicatamente, all’interno, usando la mano di ferro contro ogni forma di opposizione; all’esterno, giocando di astuzia con la cattiva coscienza dell’occidente. A cominciare dell’Europa che nei suoi democratici tribunali sovranazionali condanna il dittatore e stigmatizza il non rispetto dei diritti civili in Turchia ma, nei fatti, sostiene Erdogan a colpi di miliardi di euro, purché tenga lontano dai confini della “opulenta” Europa i siriani ammassati nei campi profughi. Popolo doppiamente beffato dal destino, costretto ad accettare l’amara ospitalità di chi ha favorito l’avanzata dell’Isis sul proprio territorio, che ha distrutto i loro villaggi e le loro città e umiliato le donne. Per non parlare del ruolo da doppiogiochista di Erdogan nella guerra Russo/Ucraina/ Usa.

Anche allora, nella tempestosa vigilia di questo pericoloso nuovo millennio, avremmo voluto fermare quella donna valorosa e i suoi compagni e, come lei stessa fa dire nel libro al guerrigliero Aziz, chiederle: “Il colore dell’oppressione non è cambiato da secoli. Come posso fidarmi di loro?”. La risposta di Jiyan è spiazzante e ci fa vergognare di noi stessi nell’ascoltare la poesia (sì, proprio la poesia) con cui risponde: “Tutto inizia con l’amare la vita”. E poi continua, con una serenità che incute rispetto, a spiegare che, in quella terra negata che è il Kurdistan, un tempo avevano vissuto persone che sapevano amare. Costrette a immergersi nel dolore e nell’amarezza si sono però dimenticate di quell’amore. La pace è essenziale perché quelli che verranno possano ritrovare l’amore, perché non debbano più sperimentare un’infanzia rubata ed essere spinti all’odio. “Considero la guerra come la necessità di esistere e di affermare la nostra esistenza e vedo la pace come un modo per illuminare la nostra esistenza. Non è quello che stavamo cercando comunque? L’illuminazione, non è forse stato uno sforzo per riportare in vita il principio di uguaglianza e libertà?”. Leggiamo, pagina dopo pagina, questa donna che non si pente di essere stata una combattente ma che si spoglia delle armi per un bene superiore, e sentiamo che in questa scelta c’è vero eroismo, l’unico che come donne siamo disposte a riconoscere, perché la guerra è, a volte, necessaria, ma non la si può amare. L’accompagniamo nel lungo viaggio, con apprensione perché andando ci siamo innamorate della sua serena generosità e vorremmo salvarla dalle sofferenze che l’attendono. Ma anche sopraffatte da ammirazione sconfinata per quel suo coraggio che travalica le nostre possibilità d’immaginazione, come se Cristo si fosse fatto donna e curda per salvare l’umanità tutta dalla vergogna di essere il carnefice e dall’umiliazione di essere la vittima.

Libro intensissimo, arricchito da una prefazione di Aldo Canestrari, il traduttore dal turco, che inquadra la dimensione emotiva della scrittrice e della combattente per la libertà. Seguita da una puntuale ambientazione storica della bravissima Laura Schrader e dalla sintesi di altri commenti al testo di attivisti, scrittori, giornalisti turchi e curdi.

Rosella Simone

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