Un grande maestro del giornalismo ci ha lasciati. Ho conosciuto Ettore Mo a metà degli anni Settanta, in un convegno organizzato dal sindacato dei giornalisti del CdS, in Via Solferino, insieme a David Maria Turoldo, Ernesto Balducci e Maurizio Chierici. Ci siamo poi rivisti in incontri cogli studenti dopo il massacro di Sabra e Chatila e l’ho intervistato per Radio Popolare da diverse zone del mondo. Un cavallo di razza del giornalismo dal fronte. Un fautore della pace che raccontava le terribili vicende della guerra. Ultimo contatto è stato nel 2015, quando ci ha dato l’autorizzazione a pubblicare un suo articolo in un libro collettivo a favore dei bambini di Gaza, all’interno di un catalogo delle opere di Vincenzo Dazi, donate all’uopo, edito dalla Mesogea.

Pubblichiamo qui sotto un suo ricordo dell’amico e collega Lorenzo Cremonesi.

(F. A.)

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di Lorenzo Cremonesi ( per gentile concessione dell’autore e del Corriere della Sera; l’articolo è stato pubblicato su Corriere.it QUI)

L’Afghanistan a piedi coi mujaheddin in guerra coi russi, l’Iran dopo la rivoluzione khomeinista: sono decine i reportage di guerra indimenticabili del giornalista-scrittore

Detestava i sotterfugi, le scorciatoie, i furbetti che dicono di essere arrivati prima sul luogo della storia e invece se la inventano di sana pianta aggiungendo di fantasia, copiando dalle agenzie comodamente seduti nelle camere di albergo. Scriveva con i suoi ritmi, odiava la fretta dello scoop, ma poi, quando arrivava il suo articolo, capivi che era fatto di cose viste e vissute, condito di particolari inaspettati, magari contradditori, però veri, onesti, indubbiamente verificati di persona. E si arrabbiava quando in Direzione non ascoltavano le sue proposte, protestava a modo suo, irrompeva nella sala della riunione di redazione a sottolineare l’urgenza di andare, partire, recarsi sui posti per raccontare. Non gli importavano i soldi, le sue note spese erano sempre in ritardo e carenti, certamente non faceva “creste”, anzi, semmai metteva del suo, perché per lui il giornalismo e soprattutto il mestiere di inviato non era una professione come le altre, ma una sorta di missione, d’impegno totale e totalizzante al servizio del giornale, ma soprattutto del lettore e della necessità inderogabile di testimoniare.

https://video.corriere.it/cultura/addio-ettore-mo-inizi-reportage-guerra-ricordo-uno-ultimi-grandi-inviati/75004584-6737-11ee-a6e6-1792e3aea2ee

Scriviamo queste righe di getto, a caldo, appena ricevuta la notizia della morte a 91 anni di Ettore Mo, platealmente definito uno degli ultimi “tra i grandi inviati” del giornalismo italiano e firma di prestigio per decenni del Corriere della Sera. Amava raccontarsi, spesso accompagnato da un bicchiere di vino, che – diceva – lo aiutava a “sciogliersi”, a mettere in moto le ali della creatività. Una sera a Gerusalemme, si era ai tempi della Prima Intifada tra la fine del 1987 e il 1988, dopo avere scritto il reportage dai campi profughi palestinesi in fiamme, si dilungò nel ricordare i suoi inizi.

Era nato a Borgomanero nel 1932, aveva finito il liceo classico e si era iscritto a Lingue e Letterature Straniere a Ca’Foscari, una delle facoltà più note dell’università di Venezia. Ma presto si era accorto che la vita universitaria non faceva per lui. Senza un soldo aveva iniziato a viaggiare: Parigi, Madrid, Amburgo, sino a Londra. Si manteneva con lavoretti: cameriere, lavapiatti, steward. Quella sera a Gerusalemme si attardò con la memoria sulle sue esperienze come steward su una nave della marina mercantile britannica. «Non mi trattavano male, ma c’erano lunghe ore di tedio che cercavo di colmare leggendo tutto ciò che trovavo a tiro», diceva.

https://video.corriere.it/cronaca/ettore-mo-cronaca-non-deve-mai-sembrare-teatro-dev-essere-precisa-puntigliosa/f690e0c6-674c-11ee-a6e6-1792e3aea2ee

Nel 1962, a 31 anni, si presenta al corrispondente da Londra per il Corriere, che allora era Piero Ottone, per offrirsi come collaboratore. Alla direzione piace subito il suo stile diretto, l’amore per il racconto vissuto sul campo. Lo richiamano a Roma e Milano, poi nel 1979 riceve il primo incarico da inviato per gli Esteri. Il direttore Franco Di Bella gli dà fiducia: la storia è importante, siamo nel mezzo della rivoluzione iraniana e l’Ayatollah Khomeini è appena tornato a Teheran.

Ettore si tuffa nella grande politica internazionale. Pochi mesi dopo è folgorato dall’amore per il suo lavoro quando raggiunge l’Afghanistan. Inizia a seguire la guerra tra le brigate dei mujaheddin contro l’esercito d’invasione sovietico. E qui nel 1981 incontra uno dei personaggi che lo hanno più affascinato nella sua lunga carriera. Intervista Ahmad Shah Massud, il “leone del Panshir”, il leader laico delle milizie locali tagike che vogliono scacciare i russi e però sono contrarie ai gruppi radicali islamici pashtun che ben presto formeranno il nocciolo duro delle formazioni militari talebane. I due si vedono più volte. Nei suoi ultimi viaggi in Afghanistan, sino a pochi anni fa, Ettore insisteva sempre per portare un fiore sulla tomba di Massud, assassinato dai militanti di Al Qaeda due giorni prima degli attentati dell’11 settembre 2001.

https://video.corriere.it/cultura/gabanelli-viaggio-cecenia-ettore-mo-se-racconti-guerre-scatta-meccanismo-che-non-puoi-piu-abbandonare/dd17c3e4-6751-11ee-a6e6-1792e3aea2ee

Ha insistito per continuare a lavorare sin verso gli ottant’anni e i suoi servizi speciali toccano gran parte del nostro pianeta: dalla guerra nella ex Jugoslavia, alla Cecenia, al Pakistan, all’India. Fu tra l’altro uno dei pochi reporter occidentali che andarono a trovare i leader del neonato movimento di Hamas a Gaza quando vennero espulsi in Libano dal governo israeliano tra il 1992 e 1993. Rimase nelle loro tende nella terra di nessuno vicino al confine israeliano per 48 ore. Per lui il dovere di andare e raccontare superava qualsiasi barriera o pregiudizio.

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