La scorsa settimana c’è stata la grande manifestazione nazionale a Roma contro il genocidio a Gaza e in solidarietà con la causa di liberazione nazionale del popolo palestinese. A quella manifestazione il PD non ha aderito. Il presidente dell’ANPI di Milano si è dimesso in disaccordo con la linea dell’organizzazione nazionale.

Pubblichiamo da oggi una serie di interventi su questo dibattito all’interno della sinistra e centrosinistra su “GENOCIDIO Sì, GENOCIDIO No”.

Cominciamo con questa intervista alla vicepresidente Arci, Raffaella Bolini, pubblicata su L’Unità.

La vicepresidente dell’Arci: “A Gaza si muore perché si è palestinesi. In quanto palestinesi, si è colpevoli. I sopravvissuti devono essere spinti ad andare via.”

INTERVISTE – di Umberto De Giovannangeli – 9 Marzo 2024

Raffaella Bolini, vicepresidente dell’ARCI, domani (oggi per chi legge) il popolo della pace si ritroverà a Roma per una grande manifestazione nazionale, da Piazza della Repubblica ai Fori Imperiali.
Il corteo di Roma non è il primo, e temo che non potrà essere neppure l’ultimo, per Gaza. Sono mesi che in tutta Italia e in mille modi si manifesta. Con le manifestazioni, le fiaccolate, i dibattiti, i film, le poesie, i concerti e gli aquiloni. È appena tornata in Italia la missione che ha portato a Rafah 50 parlamentari, giornalisti, Ong e associazioni. Ma non basta, di fronte alla magnitudine dell’orrore. Due milioni di palestinesi chiusi in gabbia, inseguiti dalle bombe. 31.000 morti, 70.000 feriti, decine di migliaia di dispersi. Bambini amputati senza anestesia. Una città rasa al suolo. Una popolazione intera affamata. Che beve acqua di mare. E muore di malnutrizione, epidemie, mancanza di cure. Sentiamo di dover fare tutto il possibile, perché finisca questo orrore. È un imperativo etico e morale, prima ancora che politico. E ci appelliamo a chiunque abbia una coscienza, perché scenda in piazza. Ciascuno con le sue convinzioni. Non è tempo di dividersi sulle virgole. Questo sterminio deve finire.

Le parole d’ordine del corteo nominano il genocidio. Genocidio. Parola che per molti, anche a sinistra, sembra impronunciabile. Ma allora come descrivere ciò che sta avvenendo da mesi nella Striscia di Gaza?
Non siamo stati noi a dare un nome a questo crimine. È stata la Corte Internazionale di Giustizia, che è il tribunale delle Nazioni Unite, a mettere sotto inchiesta Israele per genocidio. Ci vorranno anni perché il processo si concluda, ma l’accusa è stata ritenuta plausibile. Israele è alla sbarra degli imputati. Una deliberazione della Corte in merito al genocidio non accade tutti i giorni. Si fosse trattato di un altro paese, sarebbe usata per imporre sanzioni durissime. In questo caso, invece, siamo solo noi a ricordarla. Il genocidio, per il diritto internazionale, è il reato commesso “per distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso attraverso l’uccisione dei suoi componenti, lesioni all’integrità fisica e mentale, l’imposizione di condizioni di vita che provochino la sua distruzione fisica totale o parziale…”. A Gaza si muore perché si è palestinesi. In quanto palestinesi, si è colpevoli. I sopravvissuti devono essere spinti ad andare via. Questo dicono i governanti israeliani, e questo stanno facendo. Sono parole e fatti che, per il diritto internazionale, giustificano un processo per genocidio. Come la Corte in passato ha fatto per il Rwanda e per Srebrenica. Certo, ora ad essere accusato è uno Stato figlio dell’Olocausto – che è rimane una forma estrema e unica di genocidio, tanto da meritarsi un nome tutto e per sempre solo suo. E questo è tristissimo, fa male, è motivo di angoscia profonda, etica e morale. Pone mille domande sulla natura umana. Ma, se siamo arrivati fin qui, forse bisognerebbe ammettere che giustificare Israele sempre e comunque, in nome del nostro senso di colpa, non lo ha aiutato a rielaborare il trauma indicibile che ha conficcato nel suo codice genetico.

Il movimento per la pace viene tacciato di essere pregiudizialmente ostile a Israele, e c’è chi vi accusa addirittura di “antisemitismo”.
Sono antisemiti gli ebrei statunitensi che manifestano per il cessate il fuoco? O gli ebrei di tutto il mondo che firmano appelli contro il genocidio? Sono antisemiti gli ebrei israeliani che da anni si battono contro l’occupazione, contro la distruzione di case e ulivi, contro i check point che hanno fatto del territorio palestinese una gigantesca galera? O sono antisemiti gli israeliani ebrei che dormono nei villaggi palestinesi, per fare scudo alle irruzioni armate dei coloni? Sono antisemiti anche gli ebrei? Sono accuse ridicole. E sono però molto pericolose. L’antisemitismo non è mai morto, e sta di nuovo crescendo in Europa, insieme alla destra estrema. Nell’Est Europa, è apertamente tollerato dai governi reazionari. E anche da noi, ogni volta che viene sdoganato il fascismo, si aiuta a normalizzare ciò che quella cultura ha prodotto: la dittatura e l’Olocausto. Ma accusare di antisemitismo chiunque si permetta di criticare Israele è controproducente: produce confusione, alza un polverone che permette agli antisemiti veri di mimetizzarsi, e di continuare a crescere. L’antisemitismo va combattuto senza se e senza ma, come l’islamofobia, e tutte le forme di razzismo. L’invenzione del nemico esterno e la costruzione di capri espiatori, offerti al popolo come risposta facile all’insicurezza sociale e esistenziale, sono le chiavi con cui la destra estrema si è lanciata all’arrembaggio del mondo. Sono avversari da combattere, per non far soccombere la democrazia. La lotta contro l’antisemitismo, contro il razzismo antipalestinese, contro ogni forma di disumanizzazione dell’avversario sono parte della stessa battaglia contro l’imbarbarimento globale.

“Fine dell’occupazione e riconoscimento dello Stato di Palestina sulla base delle risoluzioni Onu”. È una delle parole d’ordine della manifestazione. Una richiesta che in Europa e in Italia non passa.
Continuando così, senza fare niente, faremo aumentare la radicalizzazione. Sia in Palestina che in Israele. L’escalation di orrore dal 7 ottobre in poi è il frutto avvelenato dell’occupazione. Ma è anche il risultato degli ultimi trenta anni di complicità e di ignavia della comunità internazionale, che non ha mosso un dito mentre marciva il processo di pace e Israele, con l’avanzata degli insediamenti, rendeva sempre più impossibile la sua realizzazione. Tanti ragazzi e ragazze, palestinesi e non, oggi giudicano gli accordi di Oslo una farsa e un tradimento. Sono nati dopo il loro fallimento, è difficile che abbiano una opinione diversa. Ma io me la ricordo bene la speranza, e pure la gioia, in Palestina e in Israele in quel periodo. Il consenso popolare di fronte alla possibilità che si potesse finalmente deporre le armi e convivere in pace e giustizia. Tutti, a partire da chi li aveva firmati, sapevano che quegli accordi erano imperfetti, che erano solo una base di partenza, e che la comunità internazionale avrebbe dovuto imporsi perché il percorso andasse avanti. È andato tutto al contrario. La radicalizzazione nasce da questa disillusione. Di fronte alla totale assenza di una politica di giustizia, è facile far attecchire l’idea che solo con la forza si possano ottenere risultati. Se ai palestinesi, neppure oggi, la comunità internazionale non offre altro che parole, non faremo un favore alla causa della pace e della convivenza in Medio Oriente. Faremo del male alle forze che in Israele e in Palestina per questo si battono.

Da Gaza all’Ucraina, altro fronte di guerra su cui il movimento per la pace ha agito con una visione che è stata tacciata di fare il gioco della Russia di Putin.
Ci siamo abituati, a essere accusati di stare dalla parte sbagliata. E a non ricevere mai una scusa quando la storia dimostra che avevamo ragione. Dovevano ricacciare indietro Putin con le armi. Sconfiggerlo sul campo. Sono passati due anni, ed è sempre più evidente che per vincere la guerra con la guerra bisogna arrivare alla guerra mondiale, e forse nucleare. E lì arriveremo, se non si trova il coraggio di ammettere che l’unico modo per vincere è il negoziato. E comunque, mai come ora è chiaro quanto sia forte la logica dei due pesi e delle due misure. Contro la Russia occupante, abbiamo imposto sanzioni, inviato armi all’Ucraina e santificato l’occupato. Contro Israele occupante, balbettiamo e lasciamo massacrare l’occupato.

Nell’ARCI sono attivi tante e tanti che sperano in una sinistra protagonista di una nuova stagione di lotta per il disarmo e un nuovo ordine internazionale. I partiti che alla sinistra si rifanno sono all’altezza di questa sfida epocale? O non resta che aggrapparsi a Papa Francesco?
Andiamo verso le elezioni europee. Gli esperti discutono di quanto tempo ci separi da un conflitto mondiale generalizzato. E i leader europei promuovono apertamente la necessità di armare il nostro continente fino ai denti e di passare ad una economia di guerra. Macron ha proposto l’invio di truppe Nato in Ucraina. Gentiloni ha detto che l’esercito europeo è il solo modo per evitare il rischio di irrilevanza dell’Europa. Ma noi siamo diventati irrilevanti perché abbiamo rinunciato ad avere un ruolo politico di pace e di giustizia. Abbiamo sostituito la politica estera europea con la accettazione acritica della strategia sempre più aggressiva della Nato. Abbiamo abbandonato la politica mediterranea, sposato politiche neocoloniali e fatto diventare il nostro mare una frontiera armata e un cimitero di migranti. Al posto della diplomazia mettiamo le armi: qui in Italia non riconosciamo lo Stato di Palestina ma ci ficchiamo nel conflitto nel Mar Rosso. Ci vorrebbe una rivoluzione culturale, per abbandonare il pensiero suddito che ci ha portato fin qui. C’è una nuova generazione che ha diritto a una rappresentanza politica. Sul palco di Roma parleranno i ragazzi e le ragazze di Pisa. Lottano per Gaza, la democrazia, il futuro. Chiedono che ogni vita sul pianeta abbia la stessa dignità. Basterebbe questo, a fare il manifesto di una sinistra nuova.

RAFFAELLA BOLINI, ARCI

1 commento

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