Quarantadue anni di reclusione per quarantasette diversi capi d’imputazione.

Non finisce l’incubo per Selahattin Demirtas, il leader curdo di Turchia, già in prigione dal 2016, che oggi è stato condannato a 42 anni di carcere da un tribunale di Ankara, ritenuto colpevole, tra le varie accuse, di avere “aiutato a distruggere l’unità e l’integrità territoriale dello Stato” e “incitato il pubblico a disobbedire alla legge” per dei comizi contro l’Isis.

Terza forza del parlamento turco, il Partito democratico dei popoli (Hdp, oggi Dem) è oggetto di una repressione implacabile dal 2016, l’anno dell’arresto di Demirtaş.

L’altra ex copresidente dell’Hdp, Figen Yüksekdağ, è stata condannata a trent’anni e tre mesi di prigione.


Demitras, avvocato curdo di 51 anni, Demirtas ha iniziato la sua carriera politica nel 2007 e nel 2014 è diventato il co-presidente dell’Hdp, partito democratico dei popoli, che sotto la sua guida alle elezioni del 2015 è entrato in parlamento, riuscendo a superare la soglia del 10% dei consensi. Nel 2013 era stato tra i politici che avevano incontrato nel carcere di massima sicurezza sull’isola di Imrali, a sud di Istanbul, Abdullah Ocalan, il leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), imprigionato dal 1999. In quell’occasione, Demirtas ricoprì un ruolo importante nel cosiddetto ‘processo di pace’ tra Ankara e il Pkk, un percorso voluto anche da Recep Tayyip Erdogan, che aveva portato ad un periodo di tregua tra l’Esercito turco e il partito curdo dei lavoratori. Ma con la crescita della popolarità di Demirtas, politico carismatico apprezzato anche da elettori non curdi, si acuì parallelamente uno scontro politico di giorno in giorno sempre più forte con Erdogan.


Poco dopo il tentato golpe in Turchia del 15 luglio 2016, Demirtas fu messo in carcerazione preventiva, accusato di aver incitato proteste due anni prima. Il politico è stato infatti condannato oggi nell’ambito del cosiddetto ‘processo di Kobane’, ovvero il caso giudiziario che ha visto imputati oltre 100 membri dell’Hdp, di cui 70 attualmente latitanti, per avere incitato le rivolte dell’ottobre 2014, mentre l’Isis tentava di prendere il controllo della città siriana di Kobane, popolata soprattutto da curdi, nei pressi del confine turco. All’epoca, Erdogan decise di non lanciare un’offensiva oltre confine per fermare l’avanzata del cosiddetto Stato islamico mentre l’esercito turco controllava l’area di frontiera per impedire ai curdi di Turchia di entrare a Kobane. In molte città del sud est, la popolazione scese in piazza per protestare. Le dimostrazioni sono state duramente represse nel sangue dalla polizia e 37 persone sono state uccise sotto i colpi d’arma ed oltre 700 sono rimaste ferite.


Il tribunale ieri ha scarcerato 5 imputati, 12 sono stati assolti mentre è stato deciso che per 13 di loro la carcerazione dovrà continuare. Tra i condannati anche l’81enne Ahmet Turk, figura storica del movimento curdo ed eletto sindaco di Mardin meno di due mesi fa. Il caso di Demirtas fa scalpore, non solo in Turchia: già dall’arresto del 2016 e nel 2018 la Corte europea dei Diritti umani aveva chiesto la scarcerazione del politico curdo ma la sentenza fu respinta da Ankara. Durante il suo discorso dopo essere stato nuovamente eletto capo dello Stato lo scorso anno, Erdogan affermò che fino a quando sarà al governo, Demirtas non uscirà di prigione. 

Temendo disordini, i governatori di almeno quattordici province del sud e del sudest del paese, dove vive una grande comunità curda, hanno vietato le manifestazioni per quattro giorni, secondo l’ong Mlsa.

All’annuncio della sentenza, alcuni deputati del Dem hanno esposto i ritratti dei due leader in parlamento.

“Oggi abbiamo assistito a una parodia della giustizia”, ha affermato il Dem in un comunicato.

Gli avvocati della difesa hanno annunciato ricorso in appello.

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