Approfondimenti

[Fonti di Pace] L’azione derompente degli studenti contro il silenzio di istituzioni e media

L’impegno di Fonti di Pace per la scuola.

a cura di Silvana Barbieri

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A GAZA SI MUORE  di BOMBE  di FAME  di MALATTIE:  AIUTIAMOLI !

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In una scuola superiore in provincia di Monza, grazie all’interessamento della brava insegnante Viviana Di Marco, si è tenuto un incontro on line con la nostra cooperante  Giuditta Brattini (che, ricordiamo, si trovava a Gaza il 7 ottobre scorso) sulla tragica situazione di Gaza e dei palestinesi. Quello che è molto interessante sono le domande che questi ragazzi si pongono e hanno posto a Giuditta (intervista che trovate qui sotto)

É bello quando i giovani vogliono sapere dalla voce viva dei testimoni quello che davvero succede nel mondo, e non si accontentano delle notizie mainstream. Vuol dire che il conformismo dilagante, frutto di una comunicazione manipolata e manipolante, non li ha addormentati; vuol dire che le ragazze e i ragazzi vogliono capire, esercitare spirito critico, agire in direzione della giustizia. E chi più di loro ha il diritto di farlo, visto che stanno cercando di capire come fare ad avere ancora un futuro, possibilmente equo per tutti

Di seguito l’ introduzione dell’insegnante Viviana Di Marco

Lo studio della storia recente e l’approfondimento dell’attualità sono sempre una sfida per noi docenti, soprattutto alla scuola superiore e soprattutto nelle classi quinte dove sempre ci si affanna per “fare tutto il programma”, “arrivare almeno alla Guerra fredda”, riuscire a leggere “almeno un romanzo della seconda metà del Novecento, dai almeno uno…”.

Quest’anno, in via del tutto sperimentale, ho deciso che l’attualità non poteva essere opzionale e che i conflitti più o meno lontani che caratterizzano la nostra epoca non potevano essere trattati solo sulla scia dell’accadere di eventi che tutti noi percepiamo, spesso erroneamente, come improvvisi.

Così, facendo tesoro di un corso di storia fatto molti anni fa, quando lavoravo per una ONG e ancora non insegnavo, ho costruito un breve modulo per comprendere nei suoi aspetti geo-storici il conflitto israelo-palestinese che, senza che io potessi prevederlo, è tornato, da una parte purtroppo e dall’altra per fortuna, alla ribalta delle cronache internazionali.

Per forza di cose ho dovuto operare una grande semplificazione ma il mio obiettivo non era in effetti proporre ai ragazzi e alle ragazze una disanima completa di un processo che solo la Storia, forse, potrà raccontare ma ragionare con loro su come siano complessi i concetti di Stato e Nazione e su come si portino appresso inevitabilmente il concetto di limite, frontiera, confine e come queste linee di fatto spesso possano essere arbitrarie, talvolta non precise o precisate da trattati internazionali e diventare luogo di controllo, violenza, come possano trasformarsi in situazioni di fatto che superano ogni accordo e ogni predisposizione e norma del diritto.

Da qui l’idea di sfruttare le carte geografiche per mostrare l’evoluzione del territorio della Palestina e l’analisi dei dati della geografia della popolazione della Striscia di Gaza e una serie di video divulgativi sull’argomento e infine un cortometraggio (The Present).

Ricostruire il perché poi Eleonora, la mamma di un mio alunno, mi abbia aperto importanti possibilità di incontro è per me difficile e sarebbe bello se potesse farlo lei insieme a me in uno scritto a quattro mani.

Ma le cose a volte accadono senza un preciso programma e così Eleonora, mamma di Lorenzo, mi ha donato i contatti di Giuditta Brattini, volontaria da vent’anni nella striscia di Gaza. Non ho mai incontrato Giuditta di persona, ma il suo spessore culturale e la sua umanità sono arrivate, prima a me e poi in classe, come un fiume in piena, ma una piena pacata, di preziosa saggezza, nei brevi scambi preliminari che abbiamo avuto lei ed io per telefono e nell’intervista on line che i miei ragazzi e le mie ragazze di 5°I hanno realizzato.

Così il percorso che da brava insegnante avevo pensato come funzionale a una riflessione sulla storia e sulla geografia è diventato, grazie a Giuditta, un’occasione di riflessione sui percorsi personali di ognuno e di ognuna, sulla capacità degli uomini e delle donne di prendere parte alla Storia e sulla possibilità, almeno attraverso la ricerca e l’informazione, di smettere di farci scivolare la guerra addosso.

Ecco la presentazione dell’incontro intervista a cura di due ragazzi della scuola, Lorenzo Mapelli e Stucchi Cesare:

“A seguito di un lavoro di approfondimento riguardo al conflitto Israelo-Palestinese, noi
ragazzi della classe 5°I abbiamo avuto l’opportunità unica di confrontarci, grazie al contatto
di un compagno, con Giuditta Brattini*.
Cooperante volontaria opera per le Associazioni Fonti di Pace Odv e Gazzella Odv le quali,
grazie ai contributi di donatori e al finanziamento 8X1000 della Chiesa Valdese sviluppano
progetti, da vent’anni, in ambito sanitario-riabilitazione e di adozione a distanza di bambini
feriti nella striscia di Gaza
Per Giuditta Brattini lo scenario attuale che noi tutti vediamo oggi attraverso i media non è nuovo;
infatti da diversi anni è presente in questa zona critica del nostro pianeta, ed è per questo
che ha saputo regalarci un punto di vista alternativo, diretto e trasparente su situazioni
strazianti e su realtà che spesso vengono nascoste agli occhi del mondo.
Questo è avvenuto tramite un confronto diretto con lei in modalità online e attraverso la
visione di materiale video, raccolto a Gaza, che Giuditta Brattini ci ha mostrato.
Qui di seguito l’intervista fatta a Giuditta Brattini per consentire a tutti di conoscere lei e la
situazione che il popolo palestinese vive ormai da tempo e che si è aggravata in modo netto
dall’ottobre del 2023″.

Stucchi Cesare e Mapelli Lorenzo


INTERVISTA

1) Da quanto tempo vai nella striscia di Gaza? Qual è stata la
motivazione che ti ha spinto a diventare volontaria?

R: La mia attività come volontaria in Palestina è iniziata nel 2003. Essere
volontaria è una scelta di agire quotidiano che mi permette di
raccogliere i bisogni, comprendere le difficoltà della popolazione ed
insieme trovare le soluzioni sostenibili. Non mi obbliga a rispondere ad
una struttura di Organizzazione Non Governativa, con tanto di apparato
amministrativo e “professionisti” stipendiati, che solitamente viene
finanziata dai Governi, Unione Europea costringendole a rispondere ai
criteri dei “donatori” e non alle esigenze reali della popolazione. Oggi
viviamo di ”un’economia di guerra” e una parte di questa è destinata
all’aiuto umanitario che, indipendentemente dalla volontà degli
operatori, si intreccia con i processi che alimentano gli stessi conflitti in
azioni funzionali ai disegni e interessi politici di un determinato scenario
geopolitico.

2) Quali progetti porti o portavi avanti a Gaza con le
associazioni?

R: Il mio lavoro di Operatrice Umanitaria volontaria, per 20 anni, è con
l’Associazione Gazzella che si occupa di bambini feriti e della loro salute che

vivono nella striscia di Gaza. Si tratta di adozioni a distanza. Nel corso delle
missioni raccolgo le informazioni sulle loro condizioni di salute e le trasferisco
agli adottanti. In questa attività c’è il supporto dei partners locali che danno il
loro sostegno logistico. L’adozione a distanza di bambini/e feriti è anche una
denuncia, perché i bambini sono i più esposti durante le aggressioni armate;
spesso sono in strada a giocare o a scuola. Per l’Associazione Fonti di Pace seguo
il progetto di riabilitazione per bambini ed adulti con disabilità. Un progetto
finanziato con 8×1000 dalla Chiesa Valdese. Per lo sviluppo del progetto ci si
avvale di un partner locale il Palestinian Medical Relief Society. Il progetto è
rivolto ai disabili e alle persone che li seguono nella vita quotidiana e solitamente
sono le madri. Le donne sono l’ossatura della famiglia. I padri sono spesso senza
lavoro o con lavori saltuari. Nel progetto sono previsti anche i servizi della
psicologa a supporto sia del disabile, ma anche dei famigliari che li assistono.
Spesso la comunità colpevolizza la madre per la disabilità del figlio. Abbiamo
riscontrato quanto influiscono le carenze strutturali sanitarie sul deficit di un
bambino. La causa è l’assedio imposto da Israele dal 2007 alla popolazione della
striscia di Gaza; mancano attrezzature sanitarie per la prevenzione e cura,
farmaci. Così le madri, nel periodo della gravidanza, non possono accedere a
visite di controllo, assumere medicinali se necessario e al momento del parto
una carenza sanitaria, risolvibile facilmente in altre situazioni può comportare
dei danni permanenti al bambino. Ricordo l’ultimo incontro con i famigliari dei
bambini con disabilità che avevano chiesto di continuare il progetto per non far
perdere ai loro figli i benefici fino ad allora avuti! Nel 2020, grazie ai donatori
abbiamo rinnovato due Dental Clinic nei distretti sanitari pubblici di Shaty e El
Burej con l’acquisto della poltrona dentista “riunito”, compressore, amalgatore,
e arredo. Stavamo sostenendo i servizi con l’acquisti di materiali sanitari per le
cure dentali, ma oggi, causa l’aggressione israeliana in corso, i progetti sono
sospesi.

3) Come hai visto evolversi la situazione a Gaza?

R. Dal 2007 Israele ha imposto un assedio sulla striscia di Gaza. Ha privato
la popolazione della libertà di movimento e Il passaggio di persone per e
da Gaza è consentito soltanto per “casi umanitari ed eccezionali”. Ha
imposto il controllo sull’anagrafe della popolazione, delle entrate
economiche, delle attività amministrative, del transito delle merci e del

sistema doganale, delle telecomunicazioni, sull’acqua, sulla rete
fognaria. L’elettricità viene erogata per 6-8 ore al giorno. A Gaza la
popolazione ha accesso a meno di un quarto dei beni rispetto al 2005 ed
Israele permette l’entrata soltanto di quei prodotti che sono “essenziali
alla sopravvivenza”, limitandone anche il numero.
Un assedio che comporta l’impossibilità ad accedere a cure adeguate;
una crisi dell’educazione scolastica, tra sovraffollamento e mancanza di
strutture, personale e risorse, unitamente ad una crisi del benessere
psicofisico della popolazione, soprattutto tra i minori affetti da disordini
post-traumatici. A Gaza il 70% sono rifugiati del 1948 e del 1967 e vivono
di aiuti umanitari.
Da parte di Israele il lungo assedio e il controllo sulla Striscia di Gaza
sono motivati per ragioni di sicurezza verso i gruppi armati palestinesi
presenti nella Striscia. Tuttavia, per esperienza diretta, posso dire che a
pagare le conseguenze di tale politica siano stati i civili, privati dal
legame diretto con il mondo e dell’esercizio dei diritti universali. Negli
ultimi due anni la popolazione esprimeva sentimenti di disperazione e di
sconforto. Chiedevano la fine degli attacchi armati ed erano in attesa di
una risoluzione del conflitto e la fine dell’assedio che li teneva
prigionieri. Il 7 ottobre non era del tutto “inaspettato”.


4) Ci racconteresti una tua giornata nella Striscia?

R. Il senso delle mie giornate a Gaza era dato, principalmente, dall’incontro
con i “miei” bambini e le loro famiglie. Al mio arrivo a Gaza, in accordo
con i collaboratori locali, preparavo il calendario delle attività.
Solitamente il lavoro iniziava alle 8am e terminava verso le 4pm. Quando
tornavo negli alloggi facevo un pranzo-cena. Ma non arrivavo mai con lo
stomaco vuoto. Verso le 11am era prassi uno spuntino con falafel e ful,
una crema di fave! Per raggiungere i bambini mi spostavo sul territorio
con un mezzo del partner locale. Questo per quanto riguarda le visite ai
bambini feriti o con disabilità del progetto associazione Gazzella. Per il
monitoraggio del progetto di riabilitazione ai disabili, progetto
associazione Fonti di Pace, arrivavo a Khan Yunis dove c’era il Centro di
Riabilitazione, ora bombardato, e lì incontravo parte degli assistiti con le
madri. Assistevo alle prestazioni di riabilitazione, ma partecipavo anche

agli incontri tra le madri, che fanno assistenza al disabile, e la psicologa.
Altre giornate erano organizzate per fare visita, con il personale addetto
alla riabilitazione, ai disabili che causa la loro condizione non potevano
spostarsi e che ricevevano i servizi a domicilio. Altre giornate venivano
impegnate a monitorare i servizi delle due cliniche dentali che sono state
allestite nei distretti sanitari di Shaty Camp e El Burej Camp, oggi non
operative e colpite dai bombardamenti. Spesso nel corso della giornata,
c’erano bombardamenti, giustificati da Israele contro i combattenti, ma
che di fatto impaurivano e destabilizzavano la vita quotidiana della
gente.

5) Come vivono i ragazzi della nostra età a Gaza?

R. I giovani a Gaza sono assediati e vivono costantemente il desiderio di
potersi spostare. Per tanti il sogno è andare a Gerusalemme e nei
Territori Occupati a trovare parenti ed amici. Non vogliono andarsene
dalla striscia di Gaza e abbandonare ciò che hanno, ma vorrebbero poter
studiare all’estero, fare esperienza e tornare per migliorare le condizioni
della propria famiglia, del loro paese. Hanno un profondo legame con la
storia della loro terra che vorrebbero far conoscere. I giovani sono
cresciuti sotto i bombardamenti e un ragazzo della vostra età a Gaza ha
già vissuto almeno 4 aggressioni armate. E’ normale che siano ansiosi,
vivono in un quotidiano di attacchi armati, nel terrore di perdere la vita o
quella dei loro cari e amici. I giovani gazawi utilizzano molto i social per
comunicare e stabilire relazioni. Ma i contatti relazionali-virtuali, che
maturano con l’utilizzo dei social, allontanano i giovani dalle attività
sociali. I momenti di svago sono pochi, mancano cinema e teatri e capita
di incontrare giovani sul lungo mare o seduti nei pochi centri
commerciali o coffee pub. Sono pochi anche i centri ricreativi, è più
facile vedere giovani giocare a calcio in strada. La dispersione scolastica
è alta per mancanza di risorse economiche, la disoccupazione è al 60%.
Ma le strutture scolastiche a Gaza non mancano. Secondo i dati del
Ministero Istruzione-Educazione di Gaza ci sono 803 scuole, così
distribuite: 448 scuole governative, 288 scuole UNRWA e 67 scuole
private. Le università sono 4 con diversi dipartimenti. La situazione è
ulteriormente complicata dal fatto che la Striscia di Gaza è un’area

densamente popolata. Vivono 2 milioni e 300 mila persone su 365kmq,
concentrate soprattutto nei campi profughi e nella città di Gaza City,
circa 7.000 civili abitano per kmq. I giovani di Gaza non si fanno
programmi, tutto dipende dalla situazione del momento e dalle
circostanze, ma hanno tanti sogni.

6) Come vivono la guerra entrambe le parti? Ci sono parti
contro la guerra?

R. Non possiamo parlare di guerra. Nell’attuale scenario ci troviamo
difronte all’esercito di Israele che è tra le prime 20 potenze militari del
mondo, con a disposizione sofisticate tecnologie, un equipaggiamento
militare con una vasta gamma di armi. Dall’altra parte razzi, per lo più
intercettati dagli Iron Dome israeliani e pochi armamenti. Quella tra
Israele e Hamas non è una guerra anche per una questione di
asimmetria. Dati al 4 aprile scorso, nella striscia di Gaza si contano
33.545 morti e 76.094 feriti. Save the Children dichiara che in 6 mesi di
attacchi un bambino è morto ogni 15 minuti. I bombardamenti sono
continui, la popolazione sfollata, oltre 1milione e 600mila, si è spostata a
Sud della Striscia di Gaza alla ricerca di una salvezza, di un luogo sicuro
che non è garantito. I civili cercano di sfuggire agli attacchi via cielo, via
mare e via terra dell’esercito israeliano. Raid aerei che hanno raso al
suolo case seppellendo al loro interno famiglie intere. In sei mesi di
attacchi la popolazione è allo stremo e sull’orlo di una crisi umanitaria
senza precedenti; mancano cibo, acqua. L’Organizzazione Mondiale della
Sanità ha dichiarato che Gaza sta affrontando “livelli catastrofici di
insicurezza alimentare”, con il rischio di carestia che “aumenta di giorno
in giorno”. Di 36 ospedali solo 6 sono ancora parzialmente operativi e il
sistema sanitario è al collasso. Una diffusione di malattie infettive tra gli
sfollati nelle tendopoli e nelle scuole sta aggravando la già compromessa
situazione igienico-sanitarie, che vede una diffusione di infezioni
intestinali e respiratorie, malattie contagiose, vaiolo, meningiti, epatite.
“C’è il rischio che muoiano più persone a causa di malattie che a causa dei
bombardamenti a Gaza se il sistema sanitario del territorio non viene
rimesso in piedi rapidamente” ha dichiarato un portavoce
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Gli aiuti umanitari non arrivano a Gaza e quelli che entrano nella striscia
sono soggetti ad attacchi da parte dell’esercito israeliano. E’ di questi
giorni l’attacco ad un convoglio umanitario della Ong World Center
Kitchen che ha causato la morte di 7 operatori.
L’assalto di Hamas dello scorso 7 ottobre ha causato circa 1.200 vittime
e 253 civili sono stati presi in ostaggio. Secondo le stime ufficiali,
attualmente nella Striscia di Gaza sono rimasti circa 130 ostaggi. Ci sono
manifestazioni in Israele per chiedere un accordo per il rilascio degli
ostaggi, ma anche gruppi di pacifisti israeliani chiedono la fine dei
bombardamenti. Alcuni Paesi Arabi e 24 stati dell’America Latina e dei
Caraibi hanno firmato una dichiarazione congiunta in cui chiedono un
cessate il fuoco immediato. Da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea
c’è il pieno sostegno all’operato di Israele. Ma nelle strade di tutto il
mondo centinaia di migliaia di persone protestano contro l’aggressione a
Gaza. Questa è la vera e forte voce che sostiene il popolo di Gaza e che
può fare la differenza.

7) Come la vivi tu a livello personale/psicologico?
R. Sono rientrata in Italia lo scorso 3 novembre, ma non ho mai lasciato
Gaza, i “miei” bambini, le persone che conosco, i luoghi dove per 20 anni
ho costruito e sviluppato progetti. Vedere le immagini dei massacri, i
bambini stesi sui pavimenti degli ospedali in attesa di cure, le immagini
di distruzione della struttura sanitaria del Palestinina Medical Relief
Society dove alloggiavo durante le mie missioni e dove tanti civili
venivano per le cure e la prevenzione; la devastazione dello Shifa
hospital dove ero di “casa” al pronto soccorso, nel reparto di maternità e
neonatale e dove abbiamo fornito letti, incubatrici, ecografi grazie al
sostegno dei nostri donatori…ecco è doloroso. Mi da la forza pensare ai
“miei” bambini che stanno lottando e resistendo. Quindi il mio impegno
deve essere grande e diffuso.

8) Cos’è Hamas e che ruolo ha oggi a Gaza?
R. Hamas in arabo vuol dire “entusiasmo”. E’ un Movimento di
Resistenza Islamico fondato nel 1987. Hamas è considerata
un’organizzazione terroristica da Israele, dall’Unione Europea, Usa,
Canada, Giappone. Altri Paesi, come Australia e Regno Unito

considerano solo la sua ala militare, le brigate Ezzedin al-Qassam,
come organizzazione terroristica. Lo scorso mese di febbraio il
sottosegretario generale dell’Onu per gli Affari umanitari, Martin Griffiths a
dichiarato “Per noi Hamas non è un gruppo terroristico, come sapete, è
un movimento politico”. Hamas è un’organizzazione complessa
composta da diversi organi con funzioni politiche, militari e sociali, come
lo sono anche altre fazioni politiche palestinesi. Nel 2006 Hamas ha
vinto le elezioni politiche nei Territori Occupati e nella striscia di
Gaza. Una vittoria elettorale non riconosciuta dall’Europa, Stati Uniti e
Israele che ha portato in carcere gli eletti di Hamas che stavano nei
territori occupati. Nella sola Gaza, Hamas ha tenuto il controllo e nel
2007 Israele l’ha messa sotto assedio. Il Movimento di Resistenza
Islamico è sostenuto finanziariamente dal alcuni Paesi arabi Qatar, Siria,
Iran. Negli ultimi 17 anni Hamas ha gestito nella striscia di Gaza
programmi sociali, sostenuto ed ampliato strutture sanitarie ed
educative guadagnando popolarità nella società palestinese.
Oggi il progetto di Hamas, dopo la revisione, nel 2017, dello statuto
costitutivo, è quello di costringere lo Stato ebraico a ritirarsi dai
territori occupati nel 1967 per costituire uno Stato di Palestina.
La sfida di Hamas oggi è quella di essere riconosciuto come soggetto
politico accreditato alle trattative.

9) Cosa pensa la popolazione di Hamas?

R. Dal 7 ottobre scorso la propaganda israeliana vuole Hamas che si fa
scudo dei civili di Gaza. Ma la realtà è altra: I combattenti di Hamas
conoscono capillarmente il territorio della striscia di Gaza, punti di forza
e fragilità, mentre Israele fin dalle prime ore del 7 ottobre scorso ha
bombardato indiscriminatamente il territorio, mercati, scuole, ospedali,
abitazioni massacrando i civili alla ricerca “cieca” di obiettivi militari. Il
recente sondaggio, scorso mese di gennaio, condotto dal Palestinian
Center for Policy and Survey Research (Centro Palestinese per le
Politiche e le Ricerche) in Cisgiordania e Gaza, ha rivelato che il sostegno
al Movimento di Hamas è ancora forte: “Il sostegno all’offensiva di
Hamas del 7 ottobre rimane alto, quanto tre mesi fa”. Quasi il 60% degli
intervistati di Gaza ritiene che “Hamas manterrà il controllo della Striscia
di Gaza anche in futuro”. Secondo il sondaggio “la soddisfazione nei

confronti di Hamas resta molto alta. Al contrario, quella nei confronti di
Al Fatah è molto bassa”.

10) Qual è la situazione delle donne in Palestina? Come
era prima della guerra?

R. Sono diversi i fattori di discriminazione sulle donne in Palestina a partire
dalla predominanza di leggi e legislazioni obsolete e l’assenza di una
legge sulla protezione della famiglia e di un sistema di protezione
completo per le vittime di violenza di genere. Un impatto negativo sulla
vita di tutti i palestinesi, in particolare delle donne e delle ragazze.
L’Osservatorio nazionale per la violenza contro le donne, di cui fanno
parte ufficialmente 18 ONG e istituzioni governative, sta dando un
importante contributo allo sviluppo di piani per combattere la violenza
contro le donne, frutto del patriarcato prodotto del pensiero maschilista
dominante. Ma se questo vale nella “quotidianità” delle donne colpite
da diseguaglianza sociale e di genere, gli effetti più drammatici li
subiscono in tempo di aggressioni armate quando vengono separate dai
loro compagni e dai figli. Devono fare i conti con povertà e altre
sofferenze a volte non raccontate, ma che storicamente sono parte
integrante di tutti i conflitti. Nel corso degli ultimi 76 anni l’occupazione
israeliana ha causato sofferenze e determinato una condizione
particolare per le donne palestinesi, che per generazioni hanno
affrontato avversità, stress e paura. Anche per questo la loro condizione
le vede escluse e intrappolate in un ciclo di violenze dirette e indirette.
La donna palestinese deve subire l’aggressione di Israele e
contemporaneamente deve confrontarsi con una società conservatrice
e patriarcale. Sofferenze che portano depressione e profondo senso di
disperazione. Oggi a Gaza le donne insieme ai bambini costituiscono
circa il 70% dei morti e le donne uccise appartengono a tutte le categorie
sociali: giornaliste, medici, dipendenti delle Nazioni Unite e membri
della società civile. L’ONU ha stimato che ogni ora vengono uccise due
madri e ogni due ore ci sono sette vittime donne. Ho conosciuto donne e
ragazze che da quando sono nate hanno affrontato prima di tutto il
dramma e la violenza dell’occupazione israeliana, che le ha costrette a
vivere senza genitori, marito e figli.

11) Le informazioni internazionali e nazionali su questa
guerra rappresentano la realtà?

R. Nella Striscia di Gaza il giornalismo sta morendo, anche fisicamente.
Dall’inizio dell’aggressione, il 7 ottobre scorso, sono 142 i giornalisti
assassinati. Un crudele massacro sta avvenendo e nello spazio pubblico
non si riesce a discuterne. Mancando i giornalisti non c’è la narrazione
dei fatti che ci possa quindi sottrarre da supposizioni, sospetti-Il
“pensiero comune” trova spazio con accuse di presunte complicità con i
“terroristi di Hamas” o addirittura di antisemitismo. I giornalisti morti
sono operatori dell’emittente Al Jazeera, free lance, ragazzi e ragazze
gazawi laureati alla facoltà di comunicazione. Storie di giovani che
rimarranno sconosciute, ignorate o dimenticate perché è mancata
l’indignazione dei loro colleghi di altri Paesi. Solo la presenza di
giornalisti-reporter può documentare ciò che avviene a Gaza pena subire
l’univoca informazione delle veline dell’esercito e governo israeliano. Lo
abbiamo visto il 7 ottobre scorso quando informazioni diverse si sono
rincorse sui fatti del giorno accaduti nei Kibbutz: decapitazioni di
bambini, violenze, salvo smentite successive da parte degli stessi
giornalisti dei giornali Haaretz , The Forward e New York Times. Nei
mesi scorsi l’ Ordine Internazionale dei Giornalisti ha per ben due volte
chiesto ad Israele di poter arrivare nella striscia di Gaza, ma ha ricevuto il
rifiuto della Corte Suprema israeliana. Questo fatto mina alla base il
diritto all’informazione. Gli unici ammessi nel territorio di Gaza dopo il 7
ottobre sono “embedded” all’esercito israeliano. Questo implica
accettare condizioni, come presentare il materiale ai militari prima della
pubblicazione e non avere autonomia di movimento. Gli unici quindi che
possono raccogliere informazioni e raccontare con le immagini quello
che succede dentro la Striscia di Gaza sono i giornalisti che abitano sul
territorio. Documentare-informare da Gaza vuol dire mettere a rischio
le propria vita e anche quelle dei familiari. I reporter palestinesi
lavorano in condizioni difficili, sotto le bombe e spesso senza elettricità
fatto questo che rende difficile l’invio delle informazioni. I resoconti dei
giornalisti di Gaza sono preziosi non solo perché fanno arrivare al
mondo le voci degli abitanti della Striscia, ma anche perché sono uno
strumento di resistenza, un modo per le persone di ritrovare una dignità

e un senso in mezzo all’orrore che stanno vivendo. Non ultimo, in
violazione al diritto dell’informazione il parlamento di Tel Aviv ha
approvato, nei giorni scorsi, una legge che conferisce al governo la
facoltà di chiudere le “voci” giornalistiche ritenute pericolose per la
sicurezza nazionale. Nel mirino è l’emittente di Al Jazeera, una testata
giornalistica internazionale che da anni fornisce notizie e informazioni
in particolare sul mondo arabo, ma non solo, e che segue da vicino le
vicende israelo-palestinesi. Al Jazeera potrebbe essere la prima di una
lunga lista.

12) Hai ancora contatti diretti con alcuni abitanti di
Gaza?

R. Alcuni contatti con i partner locali dei progetti sono attivi, ma con molte
difficoltà perché dal 7 ottobre scorso Israele ha interrotto le forniture di
elettricità e bloccato l’afflusso del carburante utile per i generatori. I
contatti avvengono con scambi di messaggi whatsapp, mi aggiornano
sulla situazione e la loro condizione. Dei bambini inseriti nei progetti, sia
di riabilitazione che di adozione a distanza, fino ad ora non abbiamo
notizie. E’ probabile che la maggior parte siano sfollati nelle tendopoli o
nelle scuole Unrwa. I nostri collaboratori non sono in grado di
raggiungerli causa i continui attacchi e l’esercito israeliano è presente sul
territorio con carri armati e cecchini. Quindi anche gli spostamenti sono
difficili e pericolosi.

13) Oltre a Gaza puoi descriverci la situazione oggi in
Cisgiordania?

R. Con la Risoluzione Onu n. 181 del 1948 è stato creato lo Stato di Israele e si
è sancita così la spartizione del territorio della Palestina storica attribuendo
il 56% del territorio a 600mila ebrei e il rimanente 44% a 1.250.000
Palestinesi, e Gerusalemme sotto tutela internazionale.
Come conseguenza 700mila palestinesi sono stati espulsi dalla loro terra e
dalle loro case, anche con la forza e il terrore. Lo storico israeliano Ilan
Pappe, riferendosi ai fatti successivi alla Risoluzione Onu 181, parla di
pulizia etnica.

Oggi abbiamo quasi 5 milioni di rifugiati palestinesi dislocati in 58 campi
profughi tra la Giordania(1.967.414) Siria (467.417) Striscia di Gaza
(1.172.929) Cisgiordania (771.143) Libano (421.993).
La risoluzione Onu n. 194 del dicembre 1948 ha riconosciuto ai rifugiati il
diritto al ritorno alle loro case, ma il Diritto al Ritorno resta ancora oggi per i
Palestinesi una questione irrisolta.
La “guerra dei sei giorni” nel 1967 e la vittoria di Israele sulla coalizione di
paesi arabi ha definito un nuovo assetto territoriale in Cisgiordania a favore
di Israele. Da allora Israele sta continuando, attraverso l’espulsione della
popolazione palestinese, a occupare territorio, monopolizzando le risorse
dell’acqua e i terreni fertili. In Cisgiordania sono oltre 200 gli insediamenti
costruiti sulla terra destinata ai Palestinesi. Vivono circa 700mila coloni
israeliani. Quotidiane sono le aggressioni armate alla popolazione
palestinese sia da parte dell’esercito israeliano che dei coloni. Nell’anno
2023 i morti sono stati 467 di cui 259 uccisi dopo il 7 ottobre e 12.566 i
feriti. I prigionieri oltre 7.000 di cui 2.070 in “detenzione amministrativa”,
un istituto che prevede la carcerazione a tempo indeterminato, senza
processo e senza possibilità di difendersi da prove tenute segrete (dati della
Ong israeliana per i diritti umani HaMoked). Di questi prigionieri circa 700
sono i minorenni sottoposti alla detenzione amministrativa.
La costruzione di un muro, 730 chilometri e la presenza di check point
separano le città palestinesi della Cisgiordania dove vivono circa
3.250.000 persone di cui il 50% sono bambini. Questa realtà impedisce il
libero movimento con gravi implicazioni sulla vita quotidiana.

14) Abbiamo visto come, anche in Palestina oltre che in
Ucraina, si stiano usando armi non riconosciute e non
approvate dalla convenzione internazionale sulle armi non
convenzionali, puoi spiegarci come Israele riesca a
continuare ad usare a Gaza bombe illegali come quella al
fosforo?

R. Già nel corso dell’aggressione Piombo Fuso , 27.12.2008-18.1.2009, Israele
aveva utilizzato bombe al fosforo bianco, arma letale, devastante e proibita.
Diverse le testimonianze, prove e denunce, ma non sono mai stati aperti
procedimenti nei confronti di Israele e applicate sanzioni. Per chi sta negli

ospedali durante le aggressioni si trova ad esaminare le ferite che deve
curare. Nell’aggressione in corso i medici chiedono di fare luce sull’utilizzo
di alcuni armamenti. Devono curare ustioni presenti su oltre il 50% corpo,
pur in assenza di altre significative ferite; questo elemento indica l’uso di
bombe progettate per incendiarie o distruggere con il fuoco. Il ferito per
l’utilizzo di bombe al fosforo bianco presenta bruciature delle parti di
tessuto molle e poi necrosi ossea. Il fosforo bianco prende fuoco
spontaneamente a contatto con l’aria e successivamente all’esplosione
si vaporizza nell’ambiente sotto forma di gas, e può quindi essere inalato,
provocando effetti devastanti per la salute dell’uomo e sull’ambiente. A
Gaza il diritto internazionale viene calpestato perché Israele lancia attacchi
indiscriminati contro i civili con l’utilizzo di bombe incendiarie proibite e
non rispetta il Protocollo III della Convenzione di Ginevra del 1980. Alcuni
feriti presentano nette ed orribili amputazioni dovute all’uso dei missili
R9X Hellfire. Un’arma relativamente nuova nell’arsenale americano,
venduta ad Israele, e praticamente unica. Non contiene alcun tipo di
esplosivo ma è munita di lame rotanti che vengono scagliate al momento
dell’esplosione. La bomba a fléchette al momento dell’esplosione rilascia
migliaia di freccette d’acciaio, di circa 3cm., che al contatto col corpo
penetrano al suo interno, producendo lesioni gravi. In alcuni casi, possono
penetrare così profondamente da passare attraverso le ossa. E’ forse la
bomba che da più anni l’esercito israeliano utilizza contro i civili di Gaza e
della Cisgiordania. Ad oggi l’esercito israeliano ha attaccato la striscia di
Gaza con oltre 60.000 tonnellate di bombe. Una bomba atomica a “rate”. Il
silenzio della Comunità Internazionale sull’utilizzo da parte di Israele di
bombe non convenzionali gli ha dato il semaforo verde per continuare.
15) I paesi confinanti come sono influenzati dal conflitto
in atto? La loro economia viene intaccata da esso?

R. L’ attacco di Hamas dello scorso 7 ottobre non ha visto delle ferme
condanne dai Paesi Arabi , ma solo auspici di una generica cessazione
della violenza. La situazione è piuttosto complessa ed articolata. Nello
scenario politico si deve tenere presente che nel 2020 Marocco, Emirati
Arabi e Bahrein hanno firmato con Israele gli Accordi di Abramo e la
questione palestinese è rimasta fuori dagli Accordi. L’Arabia Saudita da

tre anni viene indicato come il prossimo Paese a “normalizzare” i propri
rapporti con Israele; Egitto e Giordania si sono limitati a denunciare i
gravi rischi di una possibile escalation militare. Qatar, Kuwait e Lega
Araba (organizzazione che riunisce alcuni paesi del Nordafrica e quelli
della Penisola Araba) hanno invece indicato in Israele e nelle sue
politiche oppressive verso i palestinesi la causa dell’attacco del 7
ottobre. L’ago della bilancia resta il Qatar, da sempre sostenitore del
Movimento di Resistenza Islamico che sta al momento tenendo le redini
degli incontri per un cessate fuoco. Il Qatar da sempre mantiene
rapporti e finanzia Hamas, ma ha anche relazioni diplomatiche-politiche
con Israele. La perdita di vite umane, sono oltre 30.000 i palestinesi
morti dall’inizio del conflitto, l’estensione della distruzione di
infrastrutture e abitazioni, la riduzione della filiera della produzione
hanno determinato effetti devastanti per l’economia Palestinese. E la
povertà già presente è destinata ad aumentare, tutto dipende
dall’intensità e il protrarsi del conflitto. Quale sarà l’esito l’economico lo
possiamo in parte già vedere e ne sono coinvolti i Paesi dell’area
mediorientale e non solo. L’impatto significativo del conflitto deriva
innanzitutto dalla rilevanza economica rappresentata dal petrolio e dal
gas di cui l’area mediorientale è tra le più ricche al mondo. Quindi

l’Europa, come il resto dei Paesi dipendenti dalle forniture di petrolio-
gas dal Medioriente, si trovano a dover affrontare nuove strategie

energetiche dovendo prendere in considerazione la possibilità di una
espansione delle energie rinnovabili. Altra situazione che contribuisce
alla crisi economica è la presenza degli Houthi dello Yemen che con i
loro interventi armati rallentano e in alcuni casi bloccano nel Mar Rosso
le navi mercantili dirette in Israele. Questa azione degli Houthi è una
forma di ritorsione e pressione contro i bombardamenti israeliani nella
Striscia di Gaza. Gli Stati Uniti, con la missione navale internazionale
Prosperity Guardian formata da numerosi Paesi tra cui l’Italia, sta
operando per garantire sicurezza e libertà di navigazione nel Mar
Rosso, per il normale funzionamento del commercio globale. Ritardi
nell’arrivo delle navi-merci oppure l’obbligo di dover circumnavigare
l’Africa per arrivare in Europa ha portato come conseguenza l’aumento
sul mercato dei prezzi dei beni di consumo. In Israele gli interventi

militati hanno dato stimolo all’incremento della spesa pubblica nel
campo militare. Il governo israeliano è stato costretto ad aggiungere alle
circa 170.000 unità regolarmente arruolate, più di 350.000 riservisti
sottraendoli quindi alla forza lavoro. Ciò comporterà a breve che molti
settori dell’economia israeliana si troveranno a fare i conti con una
carenza di forza lavoro. Inoltre non va dimenticato che una parte dei
lavoratori nei settori dell’agricoltura e dell’ edilizia, circa 18.000, era
rappresentata da palestinesi con permessi di lavoro dalla striscia di Gaza,
e che oggi non sono più attivi. Ma nel disastro economico che il conflitto
sta portando ci sono altri elementi di squilibrio da tenere presente:
climatici ed migratori. Lo studio pubblicato lo scorso mese di
gennaio “A Multitemporal Snapshot of Greenhouse Gas Emissions from
the Israel-Gaza Conflict”, evidenzia che «Le emissioni previste per i primi
60 giorni della guerra Israele-Gaza erano maggiori delle emissioni
annuali di 20 singoli Paesi e Territori. Lo studio si basa però solo su una
parte di attività ad alta intensità di carbonio ed è quindi probabilmente
una notevolmente sottostima del reale costo climatico che però, anche
così, nei primi 60 giorni di guerra equivaleva alla combustione di almeno
150.000 tonnellate di carbone.”
Studi successivi hanno preso in considerazione anche il calcolo delle
emissioni derivanti dalla ricostruzione degli oltre 100.000 edifici
danneggiati di Gaza e hanno evidenziato che verranno prodotti almeno
30 milioni di tonnellate di Gas Serra.
Oggi dei circa 25,4 milioni di profughi presenti nel mondo, la metà
proviene da tre Paesi: Siria, Afghanistan e Sud Sudan. L’altra metà dei
profughi proviene soprattutto dal Corno d’Africa. I flussi migratori sono
legati a situazioni contingenti o a conflitti. Dati ufficiali di “uscite” dalla
striscia di Gaza ancora non ci sono, ma si può pensare che almeno
100.000 civili abbiano lasciato la striscia. La possibilità per i Palestinesi
che hanno lasciato Gaza è il ricongiungimento con famigliari che vivono
in Europa, in Canada e U.S.A.. Sono questi i Paesi dove ci sono
significative presenze di comunità Palestinesi. Certamente l’incremento
della migrazione comporterà uno sbilanciamento economico dei Paesi di
accoglienza, ma la sfida che questo ennesimo conflitto ci sta dando è
quello di promuovere la voce dei palestinesi, sostenere i loro diritti

calpestati dalle continue aggressioni e violenze. Valorizzare la loro
presenza e il contributo che ognuno di loro potrà portare. In sintesi
facciamo nostro il diritto umanitario per contrastare chi la guerra la
causa e determinare le condizioni perché i Palestinesi possano tornare in
libertà nella loro terra.

16) Come vede il futuro di questa guerra?

R. L’odierna situazione politica non sembra dare prospettive per una
risoluzione a breve del conflitto in corso. Dovremo fare i conti con
ancora tanti altri morti, feriti e distruzione. Di certo la questione
palestinese non si risolverà neppure dopo la fine del conflitto, troppi gli
interessi politici ed economici dell’area coinvolta. Mi auguro si apra un
percorso di pace e che il fulcro siano i diritti universali. Il futuro è
comunque abbastanza oscuro: dopo una guerra, nel nostro caso
aggressione, risollevare la popolazione dalle esperienze passate è
difficile . Un rapporto delle Nazioni Unite del 2012 dichiarava Gaza a
rischio di invivibilità entro il 2020. Proviamo a pensare cosa è oggi. Non
ci troviamo di fronte solo ad una questione economica, di ricostruzione
case ed infrastrutture. Questa aggressione lascerà donne, uomini e
soprattutto bambini con gravi conseguenze sulla salute mentale, una
sofferenza collettiva a lungo termine.

17) Quali sono stati i momenti più significativi o toccanti
che hai vissuto durante la tua esperienza nella striscia di
Gaza?

R. Tanti i momenti che mi hanno “segnato” e cambiato. Le prime esperienze in
Cisgiordania ai check point ho visto giovani soldati israeliani, ragazze e
ragazzi con obbligo leva dai 18 ai 21 anni, con l’apparecchio ortodontico in
bocca e mi puntavano un fucile obbligandomi in coda con decine di donne
uomini e bambini, per i controlli. I primi bambini visitati nel centro di
rianimazione allo Shifa Hospital avevano perso le gambe nel corso di un
attacco dei carri armati israeliani mentre erano in un campo di fragole a
fare la raccolta. Questi 3 ragazzini tra i 12 e 13 anni, sono entrati nel
progetto di adozione a distanza di Gazzella. Li ho visti crescere, fare
riabilitazione e si sono sposati. Nei pronto soccorso degli ospedali durante

gli attacchi i feriti arrivano numerosi e i letti a disposizione sono subiti
occupati. Tanti vengono sistemati sul pavimento e il sangue è ovunque.
All’obitorio ho visto bambini con parti del corpo mancanti. Ad una
ragazzina, in un pronto soccorso affollato, suturavano la ferita alla testa.
Quando ha visto che la stavo riprendendo, si è messa la mano sulla bocca
per non far sentire i geniti di dolore. Alle manifestazioni della Grande
Marcia del Ritorno a migliaia i palestinesi sfilavano pacificamente e
chiedevano la fine dell’assedio. L’esercito israeliano in risposta sparava sui
dimostranti. Abbiamo raccolto sulle ambulanze ragazzini con convulsioni,
dovute ai gas lacrimogeni, feriti e morti. Il 7 ottobre scorso ero a Gaza e ho
vissuto fino al 1 novembre sotto le bombe con i Palestinesi. Le tante
esperienze vissute contribuiscono tutte a farmi restare ferma sul rifiuto di
chi calpesta i diritti e non ha rispetto della vita. Non posso però non
tornare al giorno che sono uscita dalla striscia di Gaza, il 1 novembre scorso.
Sentimenti ed emozioni: il desiderio di rassicurare con il mio rientro la mia
famiglia e le persone che mi vogliono bene, ma il dolore, grande, di lasciare
le persone amiche, i bambini.

18) Cosa possiamo fare noi qui per esprimere il nostro
sconcerto su questo conflitto?

R. Studiare, informarvi, approfondire. Confrontatevi soprattutto nelle
diversità. Non lasciate che sia il “pensiero comune” quello debole,
superficiale, banale, vuoto, approssimativo che mette in luce o evidenzia
solo alcuni aspetti. Non cercate di “essere” o “ stare” con il pensiero “più
comodo” o del “presunto vincente.”. Adesso la soluzione del conflitto a
Gaza è un cessate il fuoco permanente, ma non è sufficiente. Per ragioni
anagrafiche siete voi che scriverete la storia e costruirete nuove situazioni
Credo che più forte e più solido sarà il vostro pensiero più efficace sarà la
vostra azione. Fermare l’economia della guerra e dei conflitti vuol dire
ripensare un nuovo modello di produzione, che non siano gli armamenti.
19)Cosa sperano i bambini di Gaza?
Insieme abbiamo visto il filmato intervista ad alcuni bambini di Gaza.
Chiedono la fine del conflitto, di tornare nelle loro case e a scuola; di
tornare a giocare con gli amici. Sebbene la loro drammatica quotidianità ci

hanno espresso una grande capacità di immaginare un futuro di normalità,
di affetti, di relazioni. Loro che da oltre 6 mesi stanno cercando di
sopravvivere a bombe e proiettili, alla paura di perdere i propri cari mentre
sono costretti a fuggire attraverso strade disseminate cadaveri. Penso ci
stiano dando una grande insegnamento.

In coda all’intervista, considerazioni di Giuditta Brattini sulla Resistenza-
Resilienza del popolo palestinese in quanto elementi integranti della vita dei

palestinesi.
Il fallimento degli accordi di Oslo, il processo che aveva quale obiettivo la
Soluzione di due Stati , ha invece avuto quale risultato la costruzione del muro
in Cisgiordania (Km. 720), la sistematica occupazione da parte di Israele di
territori, nuovi insediamenti oltre 200, il furto di risorse naturali, l’assedio alla
Striscia di Gaza, l’occupazione di Gerusalemme Est. Un colonialismo di
insediamento con la conseguente esclusione della persona dalla vita sociale. La
soluzione dei due Stati evidentemente non è praticabile, se non un’invenzione
per permettere allo stato sionista di portare avanti e completare il suo progetto
di pulizia etnica iniziato nel 1948.
76 anni di Risoluzioni, Raccomandazioni, Piani e Accordi elaborati dall’Onu non
hanno prodotto alcun risultato per il riconoscimento del diritto
all’autodeterminazione del popolo palestinese. Sulle ragioni e sui diritti dei
palestinesi sono prevalsi progetti interni ed esterni, interessi personali,
faziosità, ricchezze e guadagni. La lunga durata del conflitto e la complessità
della situazione ha cambiato i tempi della Resistenza e le condizioni delle
persone.
E’ fallita anche una ricerca di riconciliazione tra le fazioni palestinesi, con leaders
non credibili che assecondando le politiche internazionali hanno umiliato il
popolo palestinese in cambio di aiuti finanziari che appunto hanno creato nuove
ricchezze e nuove povertà, corruzione e alimentato le condizioni di vulnerabilità,
di insicurezza ed instabilità della popolazione.
La storia insegna che la liberazione di un popolo passa attraverso la Resistenza
ed è questa la preoccupazione di Israele, Usa e Paesi Europei.

Prima del 7 ottobre abbiamo visto forme diverse di Resistenza: in Cisgiordania,
gruppi armati “la Fossa dei Leoni” sono diventati portatori della rabbia della
popolazione.
Ci siamo trovati di fronte ad una giovane generazione cresciuta libera, che non
ha risposto alle sollecitazioni di una economia del consumo e di guerra che li
avrebbe fatti prigionieri del sistema corrotto e quindi non più liberi di resistere
e di organizzarsi contro l’occupante. Una generazione che non ha perso
dignità, che non cerca “reclute”. Bastano le azioni dell’esercito israeliano, le
dichiarazione razziste del governo Netanyhau, la Basic Law che fa di Israele lo
Stato Nazione del Popolo Ebraico, per uscire ed essere disposti a sacrificarsi per
la liberazione.
Nella striscia di Gaza, da marzo 2018 a dicembre 2019, ogni venerdì migliaia di
Palestinesi hanno partecipato alle manifestazioni della Grande Marcia del
Ritorno marciando verso i reticolati dei “confini” per rivendicare il Diritto al
Ritorno e la libertà di movimento. Una Resistenza quella Palestinese che a
dispetto di tutto, anche a forze militari asimmetriche, è irriducibile al percorso
per la destabilizzazione dello stato delle cose.
Resistenza è un termine che pacifisti e attivisti talvolta preferiscono evitare,
perché “compromettente” e/o assimilabile a terrorismo. Si vorrebbe allora un
popolo palestinese Resiliente che al “ri-affrontare” quotidiano dei traumi,
assuma comportamenti che tengono sotto controllo e minimizzano la
violenza.
Malaka Shwaikh , palestinese di Gaza, che attualmente lavora come docente
associato in studi sulla pace e sui conflitti presso l’Università di St Andrews nel
Regno Unito, definisce così la Resilienza in un articolo del maggio 2021 su
Progressive Policy Review :” il discorso della resilienza è disumanizzante nel
modo in cui impone termini mitici alle persone colonizzate in tutto il mondo. Li
tratta come se avessero “meccanismi di coping” soprannaturali, li romanticizza
come esemplari pazienti, oscura la loro umanità, riduce la depravazione della
violenza coloniale e ignora gli strati di violenza strutturale. Normalizza anche la
violenza del colonizzatore, ne riduce la gravità e libera il colonizzato dalla tua
responsabilità e dal senso di colpa per non aver fatto abbastanza. Se la violenza
coloniale viene difficilmente protestata, il colonizzatore continuerà con queste
violazioni, senza aspettarsi proteste o richieste di responsabilità.”

Questo ci dice che i comportamenti Resilienti portano non solo a tenere sotto
controllo situazioni ed eventi stressanti della violenza, tanto da ridurne la gravità
per la ricerca di un equilibrio per sopravvivere, ma porta infine all’accettazione
e alla normalizzazione della situazione.
La Resilienza è un ricercato risultato dell’occupazione israeliana, un altro
esperimento sulla popolazione palestinese. Ma la Palestina è una pentola a
pressione e la Resistenza dei civili resta per Israele e i Paesi che lo sostengono
un problema.
Dopo il 7 ottobre i Palestinesi ci insegnano la Resistenza: riportare la
quotidianità all’interno di una lotta collettiva, con tutte le contraddizioni e le
difficoltà che ben conoscono; sfollare dalle loro abitazioni e riorganizzare la vita
in una tendopoli o in una scuola Unrwa, ma col pensiero di tornare nella loro
casa, anche se macerie; riprendere la forza per gestire lo stress e le avversità,
ma anche mantenere un risoluto atteggiamento di contrasto alle violenze e
all’oppressione.
Una Resistenza contro le politiche sioniste, contro la pace capitalista a contro
tutte le forme di ingiustizia globale. Per questo la lotta del popolo Palestinese
riguarda tutti. A fianco della Resistenza disarmata c’è una Resistenza armata
che nella situazione attuale non possiamo attribuire solo ad Hamas, pena
correre il rischio di dare una matrice islamica alla lotta di Resistenza Palestinese.
Congiuntamente le diverse fazioni Palestinesi stanno lottando contro
l’aggressione israeliana. La lotta di Resistenza è riconosciuta dal Diritto
Internazionale Umanitario primo Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di
Ginevra del 1949 e dalla Risoluzione 37/43 del 1982 dell’Assemblea Generale
dell’Onu che cita: “Riaffermando l’importanza della realizzazione universale del
diritto dei popoli all’autodeterminazione, alla sovranità nazionale e all’integrità
territoriale e della rapida concessione dell’indipendenza ai paesi come imperativi
per il pieno godimento di tutti i diritti umani; Si Riafferma la legittimità della
lotta dei popoli per l’indipendenza, l’integrità territoriale, l’unità nazionale e la
liberazione dalla dominazione coloniale e straniera e dall’occupazione straniera
con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”.

Milano maggio 2024

*Giuditta Brattini: Diploma Scuola Media Superiore; Diploma di Specializzazione Diritti Umani e Cooperazione
Sviluppo; Master Esperto in Cooperazione Internazionale e Sviluppo
Già istruttore nella Pubblica Amministrazione, è impegnata da anni in Palestina, nell’ambito della cooperazione
decentrata, su progetti sanitari. Dal 2005 al 2011 ha realizzato il progetto per lo sviluppo delle attività del
distretto sanitario di Sabastia/Nablus in collaborazione con Enti Pubblici e la Ong Palestinian Medical Relief
Society.
Dal 2003 per Associazione Gazzella Onlus segue, a titolo volontario, il progetto nella striscia di Gaza di adozione
a distanza di bambini feriti e con disabilità. Dal 2000 collabora, a titolo volontario, con l’Associazione Fonti di
Pace per lo sviluppo del progetto, nella striscia di Gaza, di riabilitazione bambini ed adulti con disabilità finanziato
con 8×1000 Chiesa Valdese. Ha fatto formazione per interventi nelle emergenze, partecipando ad attività di
soccorso sulle ambulanze, presso lo Shifa Hospital di Gaza e nel corso degli eventi di soccorso per la Grande Marcia del Ritorno.

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