Questa è la settima puntata della rubrica “Finestra sulle Rive Arabe”, a cura di un gruppo di arabisti. Il gruppo RiveArabe (www.rivearabe.com) è un sodalizio di studiosi e cultori del mondo arabo. Il coordinamento del lavoro tra il gruppo RiveArabe e la redazione Anbamed è a cura della professora Jolanda Guardi. 

In questo numero, ospitiamo una presentazione del romanzo La signora di Tel Aviv, di Raba’i Al-Madhoun, (MReditori, 2021, traduzione di Antonino d’Esposito).

Rabai al-Madhoun è un giornalista, romanziere e scrittore palestinese. Nato nel villaggio di al-Majdal nella Palestina mandataria britannica, vicino ad Ashkelon nell’attuale Israele. La sua famiglia fu cacciata dalla Palestina durante l’esodo palestinese del 1948.

La signora di Tel Aviv, giallo ma non troppo

di Antonino D’Esposito

La signora di Tel Aviv (MReditori, 2021, traduzione di Antonino d’Esposito) è il primo romanzo ad uscire in italiano dell’autore Raba’i al-Madhoun, figura di spicco delle lettere palestinesi, da quando questo testo finì nella short list dell’IPAF 2009, premio poi vinto nel 2016 con Destini. Concerto di Olocausto e Nakbah. Centrale nella produzione dello scrittore è il costante confronto con le due principali tragedie del XX secolo, l’olocausto ebraico e la nakbah palestinese; un dialogo che pervade tutto il romanzo. La vicenda prende il via dal ritorno a Gaza del protagonista, Walid Dahman, che, grazie al passaporto inglese acquisito col matrimonio, riesce a tornare in Palestina, attraverso l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Sull’aereo avviene l’incontro che segnerà il destino della narrazione; seduti uno accanto all’altro, Walid e Dana, un palestinese e un’israeliana, inizieranno a conoscersi aprendosi a quello che hanno sempre considerato vicendevolmente il nemico. Nei primi capitoli la vicenda viene esposta di volta in volta dal punto di vista dei due personaggi che, a migliaia di metri in cielo, lontani dalla terra promessa dell’una e dalla terra rubata dell’altro, si parlano senza mai scontrarsi apertamente.

In apertura, dunque, La signora di Tel Avivsembra porsi nel solco di diversi romanzi palestinesi ambientati nel mondo contemporaneo, in cui vibra forte una tensione per il ritorno al passato e il relativo scavo biografico, e in cui il tema dell’esilio, del ritorno in patria e il confronto con l’altro sono essenziali. Eppure, il romanzo di al-Madhoun non è solo questo, ma molto di più. In un gioco di scatole cinesi, la narrazione si complica e prende diverse strade, alle volte parallele, altre sovrapponibili, che richiedono al lettore un’attenzione viva, ma che al contempo fanno scorrere le pagine quasi senza rendersene conto.

Una volta atterrati, i destini di Walid e Dana si dividono; per il primo iniziano le tribolazioni dovute al superamento del check-point, per l’altra si tratta, invece, di una nomale ripresa dell’esistenza dopo il viaggio che segnerà la sua tragica fine. Se, però, apparentemente, la vita della famosa attrice di soap opera Dana Ahova sembrerebbe un susseguirsi di feste e lustrini, all’ombra dei riflettori si svolge una tormentata storia d’amore col figlio di un importante politico arabo. Una liaison dangereuse che condurrà al finale da giallo del romanzo, un epilogo che non ti aspetti da un romanzo palestinese sul ritorno in patria.

Tuttavia, a dispetto del titolo che mette in evidenza la protagonista femminile, l’attrice israeliana di Tel Aviv appunto, il corpo principale del romanzo è occupato dalle vicende di Walid. Un uomo che inizialmente è soltanto un personaggio che viene presentato da un narratore onnisciente, ma che, col passare dei capitoli, diventa l’autore stesso del romanzo e parla in prima persona. Infatti, al-Madhoun non si limita a fare lo scrittore e narrare semplicemente dei fatti ammantati di finzione romanzesca, si diverte sia a giocare col lettore che coi suoi personaggi, da bravo burattinaio. Così Walid, da iniziale protagonista ‘raccontato’, si trasforma in narratore e scrittore stesso che, all’interno del testo, sta a sua volta scrivendo un romanzo il cui protagonista diventa, in un secondo momento, una persona in carne ed ossa. Ecco che il gioco delle scatole cinesi esce allo scoperto e viene gestito con saggezza per dipingere l’amarezza e il disinganno di chi torna in patria dopo decenni di un’assenza forzosa e trova il suo vecchio mondo ormai cancellato.

In questo rientro a Gaza, il nostro protagonista sembra affetto da quell’immobilismo generale, tipico di tutti gli uomini del ritorno che si muovono alla ricerca di persone, luoghi e profumi nel clima di totale disillusione, conseguenza della presa di coscienza dell’inutilità degli accordi di Oslo del 1993. Seguendo i passi della propria infanzia e adolescenza, Walid cerca di rintracciare gli amici che più ha amato senza sapere che quello sarà l’inizio di un calvario che, come Cristo con la croce sulle spalle, lo porterà a cadere tre volte, tre quanti sono gli amici che non trova: quei tre Muhammad che lui distingueva aggiungendo al nome di ognuno quello della relativa madre. Muhammad Samura, ex sarto dalle scarse qualità professionali, è ormai diventato un militare, ma appartiene alla famiglia dell’assassino di un parente dei Dahman ed è quindi divenuto un nemico inavvicinabile. Muhammad al-Misriyyah è scomparso da tempo e non se ne sa nulla, ma il destino più terribile è toccato a Muhammad Khadija, forse il più sensibile dei tre, quello che incontriamo a inizio del romanzo impegnato a scolpire in aria il profilo della regina Nefertiti. Davanti al muro del municipio di Gaza, Walid, con la statuetta della moglie del faraone in tasca, comprata per l’amico trentotto anni prima, non si ritrova davanti Muhammad Khadija, bensì un medicante che non lo riconosce. Il dialogo tra i due uomini, l’uno cosciente e straziato e l’altro disorientato dal forestiero che gli mette in mano duecento dollari, è probabilmente il passaggio che più rappresenta l’amarezza del ritorno in una patria completamente devastata. Allontanarsi dall’amico senza rivelare la propria identità, fare il percorso al contrario per ritornare nella casa in cui vive la madre e ripartire qualche giorno dopo è l’unica prospettiva che Walid intravede.

La signora di Tel Aviv è un romanzo che, in un certo senso, potremmo definire corale perché vi prendono parte tutte le tragedie che insanguinano quella porzione di mondo che ha un nome diverso a seconda della prospettiva di chi la osserva: Palestina, Israele, Terra Santa. A tratti onirico, a tratti carnalmente crudo, tra Tel Aviv, Gaza e Londra si dipanano tante storie tenute insieme dal collante della Storia, quella più grande di tutti noi. E, forse, col finale giallo che nessuno si aspetta, al-Madhoun pare scherzare col lettore, quasi ad insinuare in esso il dubbio che sia stato tutto un bluff. Chiudendo l’ultima pagina, chi legge pare attanagliato da un dubbio, è stato un sogno o era tutto vero? Un dubbio che richiama quello con cui il romanzo si apre, l’incredulità della madre di Walid di fronte al fatto che il figlio finalmente tornerà in Palestina dopo trentotto anni, e così il cerchio si chiude:

Domattina Walid Dahman arriverà nella striscia di Gaza. Sua madre non crede alla notizia. La considera una diceria, al pari del ritorno dei Palestinesi in patria.

Tutte le mattine si chiede: “Mio figlio tornerà, potrò vederlo prima di morire? Gli racconterò le cose che gli ho tenuto nascosto? Mi racconterà quello che non so?!”

Sono trentotto anni che si interroga e che la domanda si ripropone, presta ascolto al mormorio del vento che le sussurra indietro l’eco della domanda, raccoglie la sua delusione mentre ripiega le lenzuola. Alla sera, s’addormenta col disinganno e al mattino si ridesta con lo stesso interrogativo.

3 commenti

  1. Splendido testo, ottima recensione. Raro trovare simili testi e chi sappia valorizzarli.

    1. Grazie, Amira!
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