di Antonino d’Esposito

Nella Rubrica Finestra sulle Rive Arabe, pubblichiamo questo mese un’articolo di Antonino d’Esposito sulla letteratura marocchina.

Situato a ovest, che più a ovest non si può del mondo arabo (e non a caso Marocco, in arabo maghrib, significa proprio “il punto in cui tramonta il sole” e quindi occidente), il Marocco e la sua letteratura restano altrettanto emarginati dal panorama editoriale italiano. Se gli autori marocchini francofoni sono leggermente più tenuti d’occhio (anche se le traduzioni più numerose riguardano solo due scrittori: Tahar Benjelloun e, più recentemente, Fouad Laroui), per chi scrive in arabo, ahinoi, la situazione è più difficile e, per una lettura più approfondita della tematica, rimandiamo all’articolo Alla (ri)scoperta del romanzo marocchino di Jolanda Guardi, già uscito per Anbamed QUI). Eppure, il paese della monarchia sceriffiana ha una fervente produzione letteraria che presenta una particolare predisposizione per il genere giallo/noir.

Non è un caso, infatti, se uno dei primi scrittori che si dedica al genere all’interno dell’intero panorama letterario arabo sia proprio un marocchino: Abdelilah Hamdouchi (Qui e qui per seguire i suoi profili social) Nato a Meknes (1958), scrittore e sceneggiatore, già professore di arabo, è uno dei primi a scrivere romanzi polizieschi nel panorama arabo. Romanziere prolifico, i suoi testi sono stati tradotti in svariate lingue, tra cui in inglese, francese, spagnolo e macedone. Il macellaio di Casablanca (MReditori, 2023, traduzione di Barbara Benini) è disponibile in italiano. Il romanzo si presenta come noir, piuttosto che semplice giallo, in cui un serial killer, che la stampa ribattezza il macellaio di Casablanca, semina il terrore in città. Il testo ruota attorno a tre personaggi maschili principali:

Il commissario Hanash, tipico uomo della polizia, ex alcolista e fumatore. Sposato con una donna, tratteggiata con non molto tatto in eterna lagna, il commissario ha sempre risolto i casi di omicidio in poco tempo, il dilungarsi del caso del macellaio lo manda in crisi. Poi, l’ispettore Hammuda, vice di Hanash, suo alter ego giovane, beve fuma e va a puttane come il capo, che perciò non vuole dare il consenso al matrimonio con la sua stessa figlia; è un po’ all’ombra del capo. E, infine, il macellaio, l’emblema della gioventù marocchina attuale: ha studiato, ma non trova un modo per realizzarsi in una società estremamente corrotta, così sfoga tutto nella violenza e poi alla fine prova a scappare in Europa clandestinamente.

Tre uomini che si danno la caccia sullo sfondo di una Casablanca, che diventa una vera e propria co-protagonista, e, in questo modo, dipingono il Marocco contemporaneo: una nazione scossa da forti tensioni sociali, che ha davanti a sé molte sfide nel suo prossimo futuro.

Sul versante francofono, la capitale de facto del regno marocchino fa da sfondo al romanzo La Houlette (Elyzad, 2015) di Kamil Hatimi [ecco un’intervista con l’autore in francese]. Nato a Rabat (1960) da madre tedesca e padre marocchino, si trasferisce in Francia per gli studi di sociologia. Dopo aver esercitato varie professioni, tra cui ballerino, musicista e coreografo, dal 1995 diventa interprete e formatore culturale.

Il romanzo parte da una situazione alquanto paradossale per approdare a un finale che lascia sbalorditi per le bordate assestate al sistema sociale e politico marocchino. Dragan Chenah, giornalista de La Houlette Casablancaise, il più allineato dei quotidiani, di madre serba e padre marocchino, ha perso qualsiasi facoltà di scrivere; la punta di diamante del giornalismo servilistico non riesce più nemmeno a tracciare le lettere del proprio nome. Tra i bassifondi della città, in vicoli malfamati e in bar nel sottosuolo, dove ogni tipo di commercio illecito diventa lecito, Dragan e la sua sparuta combriccola bevono, fumano canne e sguazzano nel lerciume quotidiano. Quando, incalzato dal collega, Dragan inizia a vedere uno strizzacervelli per andare al fondo del suo ‘blocco dello scrittore’, un sanguinoso attentato kamikaze sventra un hotel in pieno centro frequentato quasi esclusivamente da stranieri. Qui, il meccanismo dell’insabbiamento di stato si mette in moto. Tutto deve far sì che il fatto di cronaca passi per un atto islamista per dimostrare al mondo l’efficienza dell’intelligence marocchina. Ma se la verità fosse un’altra? Se quell’attentatore assassino non fosse un mostro islamista, ma un figlio del Marocco trasformato in mostro dalla società ben pensate che nasconde sotto il tappeto la polvere di casa propria?

Scoprendo che il kamikaze è il suo più caro amico d’infanzia, Dragan riporta alla luce della memoria una violenza che i due, da ragazzini, avevano subito insieme da parte di tre poliziotti. È così che una lettura alternativa a quella ufficiale dell’attentato prende forma nella mente del giornalista e lo spinge ad essere degno della propria professione.

Due scrittori dunque, divisi dalla lingua di scrittura, ma accomunati dallo stesso processo creativo. Tra le trame del noir, tra serial killer e kamikaze, entrambi mettono alla berlina le colpe del perbenismo di facciata della classe dirigente che crea una gioventù marcia. Sembrano, questi romanzi, una traduzione in letteratura della celebre opera di Goya El sueño de la razón produce monstruos, il sonno della ragione genera mostri che, prima o poi, si fanno saltare in aria o trucidano barbaramente.

Francisco Goya, Il sonno della ragione genera mostri, 1797, Acquaforte e acquatinta, 23×15,5 cm, Biblioteca Nacional de Espana, Madrid

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