Il 29 giugno 1996 si è compiuto nel silenzio il massacro del carcere di Abu Selim. 1270 detenuti sono stati assassinati a sangue freddo, con raffiche di mitra, nelle loro celle. Secondo varie testimonianze a guidare le forze speciali gheddafiane è stato suo cognato e capo dei servizi di sicurezza del regime, Abdallah Sanussi. Sono passati 27 anni, ma la ferita è ancora aperta, perché non si è mai scoperto i veri autori e soprattutto non si è a conoscenza del luogo di sepoltura delle vittime.

In una prima fase, il regime ha sempre negato la strage e non ha mai comunicato ai parenti delle vittime l’avvenuta morte. Soltanto nel 2004, il dittatore Gheddafi durante una visita di una delegazione di Amnesty International ha ammesso l’accaduto, ma ha tentato di sminuire i fatti parlando di una rivolta dei detenuti che sono saliti sui tetti della struttura e minacciavano di suicidarsi, sviluppo che ha richiesto l’intervento delle forze speciali per sedare la rivolta, che si sarebbe risolto a suo dire con alcuni morti.

In una fase successiva, l’ex dittatore ha convocato il consiglio supremo della magistratura e ha ordinato l’apertura di un’inchiesta e la comunicazione ai familiari dei risultati. Per ridurre al silenzio le famiglie delle vittima ha proposto un risarcimento di 160 mila dollari per ogni vittima da assegnare ai parenti che accettavano di rinunciare ad ogni diritto di rivalsa giudiziaria contro le forze di sicurezza. Poche famiglie hanno accettato e la maggioranza aveva continuato a rivendicare di sapere tutta la verità, chi erano i responsabili e gli esecutori, di presentarsi alla giustizia  e soprattutto di sapere dove sono stati sepolti i corpi delle vittime.

Nel 2007, con l’assistenza dell’avvocato Fathi Terbil, i famigliari sono riusciti a presentare al tribunale di Bengasi la denuncia per sapere i contorni della strage, i nomi dei responsabili, un processo equo per ridare dignità alle vittime e di imporre ai servizi di sicurezza di rendere noti i luoghi di sepoltura.

Dal 2009, sono iniziate le mobilitazioni silenziose davanti al tribunale di Bengasi, di un piccolo gruppo di parenti delle vittime, con cartelli dov’era scritto: “Vogliamo verità e giustizia”. Con una cadenza fissa settimanale, ogni sabato, una cinquantina di persone si radunavano davanti al tribunale sul lungomare di Bengasi e alzavano i loro cartelli, nel silenzio totale della stampa del regime. Ne parlavano soltanto alcuni siti dell’opposizione all’estero.

Quelle piccole manifestazioni tollerate dal regime, per quel tentativo del figlio del colonnello, Seif Islam, di ereditare il potere dal padre, con un’operazione di maquillage denominata “Libia Al-Ghad” (Libia del Futuro). Tra le altre cose messe in azione dal mancato erede ci sono la liberazione di alcuni detenuti di opinione, il permesso ad una rivista mensile vistosamente di sinistra, dal titolo: “La!” (NO!) finanziata dallo Stato con pubblicità e stampata nella tipografia governativa. L’ammissione alla registrazione di associazioni filantrope e l’apertura di sedi di comunità sufi (Zawiat).

Quelle manifestazioni inizialmente piccole e silenziose si sono sempre, una settimana dopo l’altra, si sono ingrossate e sono diventate rumorose e accusavano esplicitamente i servizi di sicurezza del massacro. Un processo in crescendo, che nel 2011, è stato la scintilla per la rivolta del 17 febbraio, sulla scia della caduta dei due regimi dei paesi confinanti, Tunisia e Egitto.

Quando l’opposizione all’estero ha proclamato in un comunicato pubblicato a Londra e Washington, nel   gennaio di quell’anno, la manifestazione per la data del 17 febbraio, il regime ha tentato la mano forte ed ha arrestato l’avvocato Fathi Terbil il 15 febbraio 2011, due giorni prima della data prefissata.

La misura ha incendiato la protesta popolare e il regime ha sparato contro la folla uccidendo 17 persone, quasi tutti giovani e giovanissimi. La città di Bengasi è insorta e l’esercito ha rifiutato di scendere in piazza con ii carri armati come ordinato da Tripoli. L’avvocato TerbiI è stato rilasciato il giorno dopo ed i fedeli del regime sono scappati in un aereo, insieme al figlio dell’ex dittatore, Saadi, mandato in città per trattare una via d’uscita con la promessa di investimenti per il suo sviluppo economico e urbanistico di 5 miliardi di dollari. Una fuga umiliante che è stata la premessa delle rivolte in altre città, come Al-Baida nel Gebel Akhdar (montagna verde) e Derna, nell’est libico; Zawia e Zentan nell’ovest.  

A 12 anni dalla morte del dittatore e della fine del suo regime, non è stato ancora chiarito il mistero di quel crimine. Il comitato dei familiari delle vittime di Bani Selim rivendica tuttora l’apertura delle indagini, ma nessuno dei governi succeduti in questi anni ha mai prestato attenzione alla vicenda. L’unico personaggio implicato nel massacro, Sanussi, è in carcere a Tripoli, ma non si è mai presentato ai processi che lo vedono imputato per crimini durante la repressione della rivolta del 2011. E nel paese i piccoli Gheddafi crescono; i loro crimini hanno offuscato quello che aveva il Grande dittatore.

(Farid Adly: La Rivoluzione Libica, Milano 2012, Il Saggiatore editore)

1 commento

  1. Grazie Farid di questo lucido articolo.
    I piccoli despoti continuano a seguire le orme e le pratiche di chi li ha preceduti, purtroppo.
    La posta in gioco è semplicemente entrare in possesso del potere e dei privilegi e non impostare una visione culturale atta a mettere la dignità della persona al centro dell’azione politica.

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